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Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

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Da L’attimo dopo, 2010<br />

Massimo<br />

Gezzi<br />

114<br />

Da Materies aeterna - III<br />

Mi alleno così: imparo a numerare<br />

le ombre che mi passano fra palpebra<br />

e pupilla mentre dormo, e quando mi sveglio<br />

devo solo limitarmi a ripetere<br />

l’identico gesto con i vivi –<br />

se le cose fossero le cose<br />

non potrebbero cambiare di valore<br />

in poco tempo: al muro stamattina una bici<br />

che solo u giorno fa era un mezzo<br />

con due ruote è cavalcata da un fantasma –<br />

se le cose restassero cose per sempre,<br />

se non decidessero di saltare sulle dita,<br />

di smaterializzarsi (una notte di lavaggi<br />

ho impiegato per togliermi dal pollice<br />

il puzzo dell’aglio) – invece le cornacchie<br />

tossiscono sui coppi,<br />

e non se ne avvedono, e il suono<br />

passa vetri e guarnizioni e salta dentro<br />

una persona, conformandosi<br />

alla storia precisa di nevrosi<br />

di ognuno – se le cose restassero le cose,<br />

se fossero forme coerenti e ripetibili<br />

e non si rovinassero le sagome del tempo:<br />

ora una stessa carne sarebbe il mio guanciale,<br />

e i chiodi sul muro racconterebbero<br />

la storia del mio corpo,<br />

ficcàti bene dentro da bambino,<br />

lasciati a metà quando sai<br />

che poi col martello non riesci a sradicarli,<br />

nisi materies aeterna teneret<br />

Lucrezio<br />

se non resta uno spazio.<br />

Niente più capelli<br />

nello scarico del bagno, il bolo scende giù<br />

nella rete fognaria, si trasforma in poltiglia<br />

che nutre non so cosa. Avrei desiderato<br />

un tappeto di capelli, per dormire: stenderlo per terra,<br />

rigirarmi quattro volte su me stesso<br />

fino a sentire la tensione delle spire dipendere<br />

da un minimo scatto della testa. Invece,<br />

i capelli sono andati a finire<br />

nei tombini, sono persi come persa<br />

è la foglia che si sbriciola e diventa<br />

frantume che non ricorda più nulla<br />

della gemma.<br />

I cancelli dell’università<br />

diventano più freddi con il freddo,<br />

ogni sera fanno il solito<br />

strido di chiusura quando viene<br />

il custode a inchiavarli – per anni<br />

resteranno ancora lì, fino a che<br />

in un giorno come tanti un altro uomo<br />

batterà con il martello sui cardini<br />

per estrarli dal cemento – la ruggine<br />

che rode la vernice farà un’ombra<br />

sulla pietra – saranno trasportati<br />

su un furgone, abbandonati in un deposito<br />

o buttati in un fosso – dove rimarranno<br />

in incognito cancelli, appiglio<br />

di convolvoli, pettine di erbe: nessuno saprà<br />

che aprendosi sui perni gemevano<br />

di attriti – le lumache passeranno<br />

tra le sbarre agilmente.

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