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Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

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Da La Vallemme dentro, 2000<br />

Gianni<br />

Caccia<br />

59<br />

x<br />

Mastro Genio, misantropo per elezione, non era della natura di un giorno qualunque. Abitava in un casolare fuori mano sopra Gavi, in<br />

mezzo a un bosco di castagni che saliva in costa subito dopo il Lemme; il nome era forse diminutivo di Eugenio e sulla sua origine regnava<br />

un’annosa questione: per certo si aveva solo ch’era della Vallemme, tanto gli era entrata nelle ossa da non distinguersi più, dove la<br />

Vallemme finiva e iniziava Mastro Genio. Anche del titolo di Mastro era lecito dubitare fino a che segno fosse legittimo: non indicava un<br />

mestiere, né si sapeva che cosa avesse fatto nella vita e se l’avesse mai avuto, un mestiere. C’era chi lo voleva materassaio, chi ciabattino a<br />

Francavilla, chi contadino dalle parti della Castagneta, in una cascina dissoltasi assieme al terreno dove sorgeva, una sporgenza a picco sul<br />

Lemme che in una notte infernale di piena era sparita nelle acque, alte come mai prima o dopo d’allora; e c'era chi lo voleva vissuto sempre<br />

lì nel suo eremo, campando non si sa di cosa, più per senso innato della solitudine che per noia del genere umano, come invece sentenziava<br />

Beppe Turchino, che asseriva di averlo frequentato, infinito tempo prima, tra un mazzo di carte e un bianchetto. Insomma, pretendevano<br />

di averlo visto un po’ dappertutto in Vallemme, e poco mancava che se lo rivendicassero, mentre i più gli negavano un’esistenza oppure<br />

parlavano di una leggenda, di superstizione; Francesco nelle sue passeggiate in costa indagava ancora il cascinale dove avesse potuto<br />

ergersi e ogni volta credeva di aver trovato una nuova traccia. Ma i pochi che ne dispensavano notizia lo davano per solitario abitatore della<br />

bicocca semidiruta nel bosco di castagni e nessuno l’aveva mai visto altrove; il resto, i suoi mestieri e le sue dimore su e giù per la<br />

Vallemme, erano un sentito dire. Persino il vecchio Beppe, lui che doveva essere il più addentro a quell’individuo dai contorni di nebbia,<br />

non lo ricordava altrimenti: come se fosse stato sempre lì, dove la memoria di quei pochi lo piazzava, e non avesse mai cambiato età né<br />

aspetto.<br />

Francesco aveva incontrato Mastro Genio una domenica d’autunno di qualche anno addietro, mentre andava in cerca nel suo bosco. Chi<br />

sa come gli era venuto in mente, quel mattino presto, di scambiare l’asfalto maestro con il guado malsicuro e poi con lo sterrato ben<br />

sconnesso che si infilava in un gomitolo di alberi buio più del solito e avviluppato in un puro silenzio. Quand’ebbe abbandonato l’auto, dove<br />

lo sterrato si assottigliava a un viottolo di terra pesta, dal bruno intenso, ebbe l’idea che il bosco fosse nato lì per lui, sul momento – eppure<br />

arrivava ancora qualche ronzio dello stradone, invisibile dalla pista tappezzata di buche come una groviera; dal suolo morbido di fogliame<br />

cresceva un profumo indeciso, di altri autunni. Il covo di un folletto, gli era stato naturale pensare. Ma non assomigliava davvero a un<br />

folletto il vecchio che gli si fece incontro poco dopo, mentre sedeva sulla base di un tronco tagliato, con gli occhi infissi nella borsa di<br />

plastica a contare le poche castagne e un presunto porcino. Non ricordava di aver trasalito all’apparire della sua figura trasandata e insieme<br />

composta, come se quel disordine obbedisse a una regola interna, i capelli grigi arruffati e un sorriso a pochi denti gialli incorniciato da una<br />

barba lunga ma non proprio incolta. Portava la giacca e i pantaloni scuri di una festa remota, sparsi di strappi e buchi senza toppe e immuni<br />

dalla minima macchia, al pari della camicia bianca sporgente dal colletto liso; non una traccia di fango intaccava le scarpe dove le suole<br />

erano lì per spalancarsi sul davanti, mostrando a mo’ di denti i chiodi che le avevano tenute insieme. Col bastone scacciava le foglie<br />

ammonticchiate al suolo, più per vezzo che per la speranza di scovare un riccio o altro. La sua persona impediva di appiccicargli un qualsiasi<br />

numero d’anni; solo poteva suggerire l’epiteto di venerando, appropriato, se mai altre volte, a quel vecchio dal nobile abbandono, e<br />

venerando fu il gesto di togliersi il cappello e tenerlo sulle mani giunte appoggiate al bastone, mentre attaccò a parlare. Come si era<br />

formato davanti agli occhi del giovane, così gli discorreva del tempo e dei rari frutti che la natura elargiva quell’autunno, dei consigli sui<br />

posti migliori per trovarne, quelli che più nessuno, oltre a lui, conosceva. Francesco non provò alcuna paura né fastidio, e stette subito ad<br />

ascoltare attonito e incuriosito l’uomo generato dal bosco, la voce dalla venatura roca che l’età aveva deposto senza offuscarne l’antica<br />

limpidezza.<br />

Poi il vecchio

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