14.06.2013 Views

Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

Da La Vallemme dentro, 2000<br />

Gianni<br />

Caccia<br />

65<br />

x<br />

dal mese; per questo si arrogava di ammiccarmi con sopportazione avara, se indugiavo uno Schnaps al bancone. Appena lei avvertiva i miei<br />

piedi sul legno mi apriva il buco invaso da un letto di una piazza e mezza, col lavabo eroso all'angolo libero e la finestra sulla statale che a<br />

intervalli filtrava i raggi delle auto; noi li guardavamo un po' incantati e col soffitto sui nostri corpi ci volgevamo uno nell'altro, nel letto<br />

poco per noi e troppo per lei sola, a stringere tutto quello spazio.<br />

Al mattino mi svegliavano i rumori da sotto; il letto già vuoto dalla sua parte, filavo via a togliere la roba dalla mia camera intatta, scarico<br />

da ogni cura. Certe sere si rintanava in cucina o stornava fingendo andirivieni di fretta tra i tavoli; solo all'ultimo concedeva a sedersi, con<br />

domande scarne e distratte sulla mia casa laggiù e sul lavoro. Allora davo le risposte che voleva e senza salire in camera recuperavo la<br />

notte, la mia strada. Tanto ci saremmo ripresi, in qualche altra volta. Anche Maria se lo faceva bastare, penso, e dev'esserle bastato da che<br />

non mi ha più visto; era nel conto di ogni mattino, lo sapeva. Lo stesso conto che avrei chiesto a Sandra, alla Vallemme: passare un'altra<br />

volta e ritrovarla, senza che nulla fosse stato intanto. Come qui non è stato che la nebbia, che il divorare alberi e fiume e infondersi goccia a<br />

goccia nelle ossa, con il suo silenzio. Non serve nascondere le mani nei guanti, nelle tasche, mi ha vinto dappertutto e devo camminare per<br />

conciliarla e respirarla, che sia fiato della valle questo che mando dalle labbra semichiuse.<br />

I passi mi portano al fiume, necessariamente. Devo scovarlo, è nascosto da qualche parte nella nebbia fatta cielo, nella nebbia appresa al<br />

corpo che mi spinge verso di lui, verso il mio ritorno. Ho imboccato la discesa del ponte e costeggio i cortili che danno sull'asfalto. Un cane<br />

mi si abbriva contro da una cancellata senza colore, accenna un abbaio e subito rientra che sono già via; da una pila di piastrelle, al riparo<br />

del portico, un gatto solleva con indolenza la testa e la sprofonda di nuovo nel suo pelo. È la casa del matto, perché ci dev'essere un matto<br />

per ogni luogo; è caduto per sorte in questa casa, il figlio eletto a intrecciare parole sue con l'aria, a non essere degli altri e vivere del fiume,<br />

lontano. Ci vuole della follia, per stare a rive d'acqua e gesticolare sassi al cielo, e anch'io rabbrividivo a incontrarlo sui blocchi di cemento<br />

dell'argine, o se mi appariva dalla strada del ponte disegnando un cammino sghembo, quasi a mezzo cerchio, con la gamba sinistra: ridere a<br />

sé, i sassi regalati alla melma giungevano troppo addentro alle cose del Lemme.<br />

Terminate le case i campi si allargano dai due lati mostrando chiazze di verde ingravidato del grigio che ha ridotto la valle al suo<br />

sconfinato dominio. Un rumore noioso si fa largo nella nebbia: è Loretta col suo motorino, coperta fino agli occhi in una sciarpa. Mi dedica<br />

un'occhiata insipida mentre il motorino strema di giri alla salitella e fugge via senza riconoscermi. L'ho saputo una sola volta da Fren, tempo<br />

dopo, in birreria: lei aveva sì e no quindici anni, io ero andato via da pochi mesi. Un sorpasso isterico, la macchina di quel balordo contro la<br />

barriera del ponte che l'aveva ributtata in strada e Loretta era volata fuori dal finestrino, atterrando sull'erba accanto al Lemme. Ne uscì<br />

con le due gambe rotte, e ci vollero parecchi mesi perché le usasse di nuovo come prima; Fren diceva che a farci caso le si notava un passo<br />

appena strascicato, il segno del prodigio. Il fiume, benigno, l'aveva salvata. Magari l'avrà imparato, magari nella valle di questo mattino; o<br />

penserà soltanto che se l'è cavata bene e imprecherà al tempo cattivo, ancora ignara dell'errore, del fondo di ogni errore, mio e suo<br />

comune.<br />

Devio repentino per i campi alla mia sinistra e scendo al fiume, che ormai è chiaro, mi ha atteso con la sua pazienza ristoratrice. L'erba<br />

molliccia scivola sotto i piedi e quasi corro al nostro incontro; un verso di uccello risuona salutare da qualche parte nella nebbia. Ecco, sono<br />

arrivato. È questa la mia Vallemme, la Vallemme dell'acqua che tenta un letto tra le pietre, dei pochi stecchi di alberi decisi a esistere in<br />

questo lembo che non è fiume né terra, delle stradine ingombre da tronchi che orlano il corso in lotta con l'autunno; non le case addosso a<br />

una strada che è subito oltre, quell'oltre cui sono partito credendo di non avere più luogo e non sapevo che il mio luogo restava, al di là di<br />

ogni alpe e di ogni autostrada, e non era l'irritarsi di nostalgia per i marciapiedi di piombo, tedeschi, non era la Gasthof con la stanza<br />

asempre libera

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!