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Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

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Su L’attimo dopo<br />

sintassi. È cioè tra i più coscienti nella ridefinizione di un percorso lirico che passa per la strada non facile di una metrica in sostanza classica<br />

(fondata sull’endecasillabo), non nemica di attenti e non artati enjambements e spezzature, nella continuità-fluidità del discorso. Il flusso delle<br />

frasi è formato dalle o scomponibile nelle unità metriche note, in accordo con una sintassi salda che tiene la linea portante del significato senza<br />

dissipare subordinazioni, senza tentare – in questo senso – azzardi di ulteriori frantumazioni, fossero pure sotto l’ombrello non spiazzante della<br />

reticenza e dell’anacoluto.<br />

Detto ciò, va aggiunto che, al livello delle unità superiori, ossia delle poesie, dei testi compiuti e dell’uso e modulazione che questi fanno delle<br />

caratteristiche appena elencate, esistono vari registri nel libro L’attimo dopo, ma che due sembrano tenere con maggior evidenza degli altri il<br />

campo: uno narrativo-allegorico, e uno – più indefinibile – che sembra, spiccando sempre su uno sfondo allegorico, attenuare le evidenze<br />

strette del narrato (e dell’io come asse portante) per affidarsi a una parziale indefinizione delle occasioni e situazioni di vita date. […] Cosa<br />

succede nell’“attimo dopo”? Il peso – fenomenologico – che la coscienza avverte, patisce e accerta, è quello delle cose, delle costrizioni, delle<br />

mancanze da cui pure nasce azione, una necessità (“partire”, “contare le finestre illuminate / nel buio”). Se di indefinizione nell’osservazione si<br />

tratta, è attivamente conoscitiva. Disegna ciò che prima del verso non esisteva. Il testo che apre la raccolta è, in questo, decifrabile sì nel senso<br />

dei disastri (tellurici e politici) che attraversano da sempre l’Italia, ma anche e precisamente nella direzione di una non scontata cognizione del<br />

dolore: “Poi ci fu una scossa repentina, / e i muri cominciarono a frantumarsi / e a spaventare gli insetti che ci vivevano dentro. / Non c’è più<br />

lavoro, ci dicevano / sorridendo, non ci sono più affetti / capaci di farci amare queste sedie, queste mura, / il silenzio che si ascolta parlare solo<br />

quando / percepisci il tempo scorrere, o ricordi qualcuno”.<br />

Marco Giovenale, “slowforward”, 5 novembre 2010<br />

* * *<br />

[…] Mosso dall’impegno (etico oltre che estetico) “a guardare sempre meglio”, Gezzi compone nei suoi testi un intreccio perfettamente<br />

calibrato (anche in questo caso per via prosodica: l’unica che rende davvero necessaria la versificazione, per chi legge non meno che per chi<br />

scrive) tra sapienza letteraria e passione figurativa, impulso esistenziale e ricchezza istintivamente cromatica della propria tavolozza espressiva,<br />

dentro un istinto diari stico temperato sempre dall’impulso a trasformare la cronaca in storia, il dato impressivo in epifania. E L’attimo dopo,<br />

derivato dall’epigrafe di Virginia Wolf then the hour, irrevocabile, è titolo per una volta non suggestivo ma esplicativo dell’intenzione poetica,<br />

tesa a raggrumare nei fotogrammi testuali che si susseguono entro le cinque sezioni del libro una gamma percettiva efficacemente compiuta.<br />

Così, l’io che parla integra l’ansietà del soggetto sensibile con una “prima resistenza da imparare grazie alla virtù primaria della meraviglia”… […]<br />

Alberto Bertoni, “Il Mulino”, 2, 2011<br />

Massimo<br />

Gezzi<br />

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