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Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

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Da La Vallemme dentro, 2000<br />

Gianni<br />

Caccia<br />

63<br />

x<br />

LA VALLEMME DENTRO<br />

Sono tornato. Lo attestano gli alberi spogli dal fiume, tra sassi e nebbia, lo canta qualche verso animale lontano, lo ripete il gomitolo<br />

grigio dell'aria sui vetri appannati, che sono qui. È ancora un poco di strada straniera, ma in breve, se non mi sfugge la memoria, mi<br />

accoglierà il suo margine disadorno e freddo e in quel punto sarà Vallemme, di nuovo Vallemme. Tutto ha termine in questo margine, e<br />

non è solo aver trovato il mio ritorno, o almeno non l'ho trovato veramente, in fondo; qui era la mira dell'errare per autostrade e tunnel,<br />

lungo alpi e laghi, qui aderivo con le dita naufraghe rapprese sul volante: all'albero spolpato dell'autunno dove vedevo rifiorire umori di<br />

nebbia, al greto di ossi per cui saltellavo indagando gli umili arbusti, alla melma che nella calura terrosa diceva il trascorrere di poca vita<br />

verdastra.<br />

Ecco il paese. Il quadrivio con la sua cappelletta, il rettifilo che lo sega e quasi non so di esserci, come non sapevo della valle, di<br />

trapassarla e viverla intanto. Il paese sembra la strada e pure c'è, le poche case abbrancate al castello o diluite nel piano davanti al fiume mi<br />

scappano, ma le rifaccio tutte mie ora, appena depongo l'auto e le cerco, una per una, nei loro anfratti. Il paese scivola sotto le mani,<br />

cavedano come la valle: anche lei non si è fatta prendere quando volevo, anche lei mi indicava la strada e il passaggio, intentata. Così l'ho<br />

dovuta stanare lentamente, e allora mi ha rivelato l'acqua che mugugnava parca ai miei piedi, il fastidio di uccelli disturbati che si<br />

rintanavano nel silenzio della sterpaglia; bisognava che la scoprissi tutta intera prima di andare, prima di cedere alla strada dove alludevano<br />

le case che avevo creduto troppo poche, toccarla pezzo per pezzo e portarne con me anche nella città dal cielo spiovente, la città delle<br />

fontane gioiello incastonate alle vie e alle piazze del centro. Il paese muore subito nel fiume, alcune case fuori del bordo ed è già la breve<br />

striscia del piano e oltre il piano è ghiaia e Lemme, vigile nell'ombra sulla presenza umana mai accolta a pieno. Si muove attento, esplora<br />

con la calma sua propria il tempo propizio, il tempo tanto sperato, quando evaderà dai sassi e tutto ridiventerà suo.<br />

La memoria mi si attorce con la coscienza gelida dell'aria che sboccia dalla valle a grigio del giorno. Poteva non essere? Ha aspettato<br />

anche troppo, voleva sapermi arrivato per spianare i suoi indizi: il parcheggio sconnesso di terra dove ho poggiato l'auto, l'insegna del<br />

telefono inusato, le salite che preludono al castello. Temevo che non mi aspettasse più, che forse non lo riconoscesse, il mio ritorno; e tutto<br />

è pieno di indizi. Di essere partito per scambiare la valle con un autocarro che tragittava cose, in bilico tra alpi e alpi. Del mattino colloso<br />

che fuggii e schernebbiava, tutte goccioline di valle che si attaccavano e mi accompagnavano anche là fuori, nel vuoto. Ottobre, novembre<br />

come ora, e come ora gocciava la Vallemme; non c'era che lei alla corriera, ad assistere che mi facevo trasportare via con gli occhi<br />

schiacciati al sedile davanti: gli altri, Cesco, Fren, i Genovesi, li avevo lasciati la sera prima tra il riso fumoso delle birre, già perduti dietro le<br />

spalle. Barcollando verso la villa, le mani incespicavano nella maniglia del cancello in cerca di una presa e tentavo un piede dopo l'altro,<br />

apparve lo sguardo nudo del ciliegio nel cielo nuvolo, a dirmi che così l'avrei salutata, la Vallemme. E invece non l'avevo oppressa in quel<br />

saluto, come forse pretendevo allora, lo intravidi al secondo o al terzo viaggio dalla Germania, sotto il Gottardo, sotto il buio della galleria<br />

infinita per cui rimordevo metro per metro il mio luogo; me lo prevenne di prepotenza il sole, forzando la curva all'uscita in discesa verso il<br />

Ticino. Del resto non valeva ricordare, se mescolavo i saluti alla memoria; ora sì, ho liberato la memoria da me o piuttosto sono divenuto io<br />

dentro di lei, io stesso memoria. È inutile andarli a trovare, Cesco e gli altri, e non certo perché saranno a un qualche lavoro, in questo<br />

mattino. Non è di loro che cerco: loro sì, sono rimasti in birreria da quella sera, dopo le sconcezze salate come lacrime e la fila a scaricare<br />

fuori, contro il muro e contro gli alberi, dopo l'addio di Fren che ridendo all'angolo della bocca mi ha stretto con forza la sinistra, a dispetto<br />

delle cartoline che ci saremmo mandati di norma, nell'illusione di sfotterci ancora alle mie sortite per le ferie; l'avrei capito dopo, che non<br />

potevo

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