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Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca

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Da La Vallemme dentro, 2000<br />

Gianni<br />

Caccia<br />

60<br />

x<br />

Poi il vecchio lo invitò più addentro al bosco, nella sua dimora: una casupola dai muri sbrecciati che pareva spuntata da sé come filo<br />

d'erba o fungo, travi pietre e coppi tornati a essere alberi e foglie, zolle d’umido e roccia. Al tocco del padrone la porticina di legno nero,<br />

segnata per tutta la lunghezza da tante stagioni, si ritirò senza alcun rumore e li ammise a uno stanzone molto più ampio che a<br />

immaginarlo da fuori, col fondo di piastrelle indistinte dalla terra fresca, i muri inceneriti dagli inverni, la stufa decrepita all’angolo con la<br />

pignatta nera quasi a soprammobile; Francesco non avrebbe creduto che la finestrella spessa da collo di damigiana, che prima non gli aveva<br />

concesso di sbirciare attraverso, potesse dilatare di luce lo spazio annullandovi l’asse rozza inchiodata a quattro gambe malferme e le due<br />

sedie di paglia sfilacciata - una povertà pregna di bosco, che trasudava un decoro arcano. Offrì all’ospite castagne arrosto, era lecito<br />

scorgerne un bel mucchio da una porta socchiusa che dava in una specie di ripostiglio, e vinello rosso che faceva lui, aveva detto con un<br />

accenno di soddisfazione porgendogli un gotto dal vetro giallognolo; non c’erano vigne lì intorno, protestava tra sé Francesco, ma non era<br />

plausibile che qualcuno gli portasse della roba, a quel misantropo. No, la bottiglia su cui la polvere aveva fatto le incrostazioni non poteva<br />

essere che vino suo; così Francesco lo aveva ingollato senza troppi problemi e mangiava di gusto le castagne. In fondo, un po’ genio il<br />

vecchio lo era davvero.<br />

Intanto continuava a parlargli, beandosi di avere anzi tutto un ospite, di potergli trasfondere i suoi ricordi che subito si facevano storie.<br />

Non certo storie di sé, di una qualche sua vita dentro quei luoghi; la sua lingua andava a ingolfarsi in un’altra Vallemme, improbabile e vera<br />

come il poggio a vigneto che scoppia di sole nel tardo agosto, o il plocco d’argento dell’acqua sui sassi sinuosi, o il verde dilavato dei campi<br />

dopo la pioggia amorosa dell’aprile – una malia facile a tutti, chi avesse gli occhi per capirla. Il silenzio che aveva coltivato per anni doveva<br />

trovare sfogo e frutto nel retaggio di un tempo che a stringerlo scappava via dalle dita, e sarebbe valso empietà metterne in discussione i<br />

lacerti che affioravano alle sue labbra. Per Francesco erano naturali come il loro artefice, o forse dipendeva dalla casupola: nel tragitto di<br />

ritorno, chiuso nell’abitacolo dell’auto, gli era capitato di lasciar andare lo sguardo e sorridere tra sé per come i luoghi tanto usuali avessero<br />

potuto trasmutarsi nelle parole di Mastro Genio; ma seduto sulla sedia sgangherata dalla paglia loffia, davanti al vinello rosso con le<br />

castagne o un bianchetto con gli amaretti - di simili non ne aveva mai visti, faceva da sé anche quelli?, in mezzo allo stanzone umido, la<br />

pignatta piena d’acqua che traballava sulla stufa rugginosa, doveva convenire sulla serietà delle storie che uscivano dal suo vivo volto di<br />

brace: erano il passato di un uomo nato tale, senza mai avere avuto un’età. Così, dopo quel primo incontro dal quale era uscito con la testa<br />

un po’ confusa come da una forte scossa di tuono, la promessa di tornare a trovarlo non era rimasta nell’aria del bosco, ed erano seguite<br />

altre visite e altre storie, divenute per una tacita convenzione la materia del loro incontro; dopo i doni ospitali di cibo e di bevanda,<br />

naturalmente.<br />

Anche allora, mentre l’auto obbediva alle molli curve che spezzavano il rettifilo oltre il bivio per San Cristoforo, Francesco si sentiva<br />

addosso l’odore di quelle parole dalla cadenza di risacca, pregustava i saluti dopo tanto, l’accomodarsi sulla stessa sediola davanti alla<br />

bottiglia polverosa e al bicchiere giallognolo, e poi il momento che il vecchio sarebbe passato brusco a riavvolgere il filo della sua memoria<br />

diafana; e un’altra voce, un altro timbro sarebbe di nuovo sgorgato da quella bocca d’argento un po’ opaco, con la forza dell’acqua tersa<br />

che balzava di certo da una fonte, in qualche luogo del bosco, e ad ogni visita luccicava da un orcio screpolato vicino alla stufa. Gli riusciva<br />

quindi meraviglioso, della meraviglia più ingenua ascoltarlo; altrimenti come avrebbe accolto la favola dei tonni di fiume? Era la prima che<br />

aveva imparato dal suo labbro, e come prima gli era rimasta la più impressa. Mastro Genio si era scusato del suo povero desco,<br />

aggiungendo di non potergli offrire di più perché erano lontani i giorni in cui i tonni sguazzavano nel Lemme; alla faccia sbalordita del<br />

giovane precisò che esisteva un tempo una specie di tonno d’acqua dolce che trovava ricetto nel torrente, e solo in esso. Ogni pianta, ogni<br />

fiore giovane

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