Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca
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Da La stadera, 2005<br />
Gianni<br />
Caccia<br />
75<br />
x<br />
un po’ trito, non l’abbiamo inventato noi ma fa alla causa, è la causa che conta, diceva convincendosi sempre più, è di qui che bisogna<br />
partire, potrebbe essere anche il nome del gruppo, non ce l’abbiamo ancora e un nome dovremo pur darcelo. Niente nomi ufficiali da<br />
costringere in sigle, ma qualcosa di più diretto, qualcosa che si capisse subito la nostra idea. Com’ero euforico quando sono sceso dalla sua<br />
macchina; ho sbattuto la portiera e mi sono messo a saltellare fino al portone. Mi era stata offerta la svolta; potevo giocarmi tutto, avevo<br />
trovato l’azzardo dello scatto finalmente in avanti del mio tempo.<br />
Non l’avrei detto che finivo qui, dietro questo muro buio dove sedimenta piano il respiro della mia paura, senza l’appiglio di una fuga, di<br />
un ritorno. Albanesi tutti appesi: il mondo incasellato, diviso nettamente per categorie, ancora. Quant’era difficile, non me n’ero accorto ai<br />
tempi che rovesciavo tutto il male nella cloaca dei compagni, ora la causa cominciava a farsi più complessa, più sfuggente: che bella l’idea<br />
squadrata in cui ti ci riconosci tutto, in cui ritagli esattamente i confini e il resto è fuori, è contro; ma c’era sempre qualcosa che fuggiva lo<br />
schema, una maglia rotta e io a ricucire, a riparare con rabbia paziente perché lo schema tenesse, ne andava della causa.<br />
Se no, gli Albanesi correvano il rischio di non essere tutti uguali, era già successo con i comunisti, che lo schema non aveva tenuto.<br />
Perché al pensionato bavoso che faceva la posta a mia sorella, stazionava sempre giù da basso, al portone, aspettandola che uscisse o<br />
rientrasse e l’abbordava, o quell’altro vicino, il ferroviere che ci salutava appena perché andava superbo che era assessore, lo dicevano tutti<br />
che ci lucrava col suo assessorato, anche lui sempre a sparare sul malgoverno e poi faceva un cazzo tutto il giorno allo scalo merci, un<br />
rubastipendio come lui non poteva che essere un compagno, e toccava a noi mantenerlo; ecco, al conforto dei comunisti come quei due lì<br />
si opponeva il signor Manfredi, impeccabile anche se nella vita aveva fatto l’operaio, vestito di gusto, non con la cravatta posticcia e la<br />
saliva agli angoli delle labbra come il vicino porco, il signor Manfredi era un signore per davvero, di correttezza esemplare, mi salutava<br />
sempre con un sorriso aperto. Non ha mai saputo di me, è morto poco dopo la pensione per un tumore e mi è fin dispiaciuto, non mi sono<br />
neanche fatto pregare da mia madre per andare al funerale. Ma allora andavo dritto per la mia causa, c’era la cantina di Vlady ad<br />
aspettarmi e là tutto si rincasellava; ora è più difficile, sarà l’età che si matura come dicono ma io non voglio questo maturare, voglio la mia<br />
causa, la mia certezza e con essa affronterò anche loro, perché loro sono qui intorno, in agguato, approfitteranno se mi vedono cedere alla<br />
maturità.<br />
Già, è sempre più difficile odiare; più vedo che cresce l’odio, l’intolleranza quale che sia e meno mi ci ritrovo, va troppo di moda ora, è<br />
scomparso il piacere di essere contro odiando. Ho persino conosciuto una famiglia di Albanesi: lo sapessero Vlady e gli altri. Una famiglia<br />
per bene, della prima ondata, non di quelle dopo che hanno svuotato le loro prigioni e ci hanno mandato qui il peggio dei delinquenti;<br />
gente onesta, tiravano avanti in cinque col lavoro della figlia maggiore, traduttrice o qualcosa del genere. Abitavano in un alloggio delle<br />
case popolari qui vicine, anche questo fanno i comunisti, danno le case a loro venuti qui freschi freschi mentre la nostra gente aspetta una<br />
casa da una vita; il padre aveva anche provato a cercare lavoro, laggiù era barbiere, ma ha rinunciato quasi subito. Li ho conosciuti un<br />
pomeriggio che, rientrando, me li sono trovati davanti alla porta di casa mia; chiedevano abiti smessi, erano venuti in delegazione per<br />
impietosire: il padre, un uomo robusto dai capelli brizzolati, sguardo fiero e gentile, non aveva neanche la faccia scura degli Albanesi,<br />
sembrava dei nostri, la madre, lo sguardo curvo a terra sotto il risentimento di una vita di sconfitta, la seconda figlia, una giovinetta<br />
dall’aria sfrontata che ce l’hanno nel sangue, per quanto buoni sono di quella razza, e la bambina, la bambina della prima figlia, unica<br />
assente perché stava al lavoro, un amore di due o tre anni che pareva una bambola di porcellana, i capelli biondi come grano con tutti i<br />
boccoli e gli occhi celesti, non l’immaginavo che gli Albanesi potessero avere una bambina così bella, la teneva il padre nelle sue braccia<br />
salde, e lei sorrideva, ancora ignara sorrideva. Mi infastidiva che venissero a chiedere elemosina, anche di abiti smessi, mia madre ha la<br />
fissa