Leonardo Mancino - Arcipelago Itaca
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Da La Vallemme dentro, 2000<br />
Gianni<br />
Caccia<br />
61<br />
x<br />
fiore, ogni animale della valle, anche il più piccolo stelo d’erba aveva avuto all’origine un carattere suo proprio, che lo notava rispetto alle<br />
stesse specie presenti altrove; così era stato per il tonno di fiume, di cui si era estinta persino la memoria. Che cosa avesse di diverso dai<br />
cugini abitatori del mare, come fosse pescato e mangiato, Mastro Genio non diceva; nel suo ricordo i tonni mulinavano pigramente nelle<br />
anse del Lemme, per lanciarsi all’improvviso in guizzi frenetici fuor d'acqua andando a posarsi da sé, per la gioia stupita dei pescatori, sui<br />
sassi del greto o all’ombra bassa e primitiva dei lenti arbusti, e quando le piene ne sbattevano un gran numero sulle sponde dove più forte<br />
ruggiva la corrente era una festa cuocerli nelle piazze e nei cortili per propiziarsi il sereno.<br />
Ma la storia che sopra tutte Francesco amava farsi ripetere era quella del Marchese Pallino e di Santa Monalda: una storia del più buio<br />
Medioevo, quando imperava nella valle un oscuro feudatario, il marchese Guido de’ Pallini abbreviato in Pallino, che esercitava sui suoi<br />
sottoposti l’autorità concessagli dall’epoca e dal suo rango, fuor che in un punto, quello che massimamente gli sarebbe piaciuto di<br />
esercitare; perché non si sa per quale vizio di natura, o quale sortilegio, da non escludere in una tale epoca, il Marchese non poteva esigere<br />
dal suo corpo quel diritto che gli dava l’accesso alla virtù delle novelle spose. Per la verità Pallino, piccino e rotondetto come il nome<br />
suggeriva, non ricusava di chiedere al suo castello le giovani appena maritate, ma sempre le rimandava tali quali gli arrivavano. Il meschino<br />
intendimento di lucchettare il loro labbro con qualche regaluccio fallì: le immacolate mogli, in quanto mogli non tardavano a dotarsi di<br />
copiosa favella, e chi prima chi dopo divulgarono il difetto, come e perché le avesse restituite intatte al contado; e se Pallino confidava nella<br />
fama di una presunta liberalità, questa fu senz’altro presa per debolezza. Per dirla in breve, la cosa riecheggiò in tutta la valle e destò<br />
reazioni non improntate a gratitudine. L’argomento si prestava di per sé a essere oggetto di risa e motteggi, ma un signore incapace di<br />
regnare anche nell’esercizio del suo sopruso non meritava la signoria di cui era stato investito, soprattutto se non si procurava gloria nel<br />
pacifico campo di battaglia dove massimamente sarebbe dovuta rifulgere la sua virtù di nobile guerriero; quel volgo più che aduso a subire<br />
amava una tirannia assoluta su di sé, purché il tiranno infondesse la sicurezza della prepotenza. Insomma, il passo dall’irrisione alla rivolta<br />
fu breve: i villani inferociti per la mancata violazione delle loro donne presero d’assedio il castello, e quel ch’è più la truppa del Marchese<br />
fece causa comune con il volgo. I rivoltosi erano infiammati dal desiderio di avere una più degna autorità sopra le loro schiene, un vero<br />
feudatario quale era stato Pier Ugo, il padre di Pallino, additato in quel momento ad esempio di virile tirannia: lui sì che sapeva avvalersi di<br />
tutto il suo potere e andava di persona a compiere il suo diritto sulle donne, senza attendere che venissero recate a lui quando la legge<br />
degli avi lo prescriveva. Non era del tutto chiaro che cosa avrebbero fatto del Marchese; ma pare che sotto le grida di esilio, prigione e<br />
morte si insinuasse il proposito di un’esauriente lezione di virilità all’imbelle feudatario.<br />
Per la prima volta nella vita Pallino provò il vero terrore: all’improvviso solo, caduto dal suo fastigio in balia di una turba infiammata di<br />
sangue, il castello stesso pareva rovesciarglisi addosso mentre imboccava il cunicolo segreto che l’avrebbe portato in salvo, dietro lo<br />
sperone di roccia dov’era l’inutile baluardo del potere ereditario. Fuggiasco e inerme vagava per le vigne e i campi del suo feudo, che<br />
presto lasciò per tentare declivi agri e spelati, senza una meta ma il più lontano possibile da quelle furie assetate di una vittima che<br />
placasse secoli di servaggio. Corse Pallino, e corse ancora, finché verso il tramonto le forze lo condussero esausto a una gola profonda e<br />
minacciosa; in fondo un torrentello ignoto, o piuttosto un sottile rigagnolo che a tratti si allargava in pozze d’acqua. Il discendere le rocce<br />
brulle per un malagevole sentiero di sassi e terriccio calò in lui un po’ di pace, come un rifugio dal mare in una baia selvaggia ma sicura.<br />
Accolto dal fondo della gola, ormai densa delle ombre dei monti, i fremiti della paura diedero pian piano luogo alla dolcezza, istillandogli<br />
l’ansia di una preghiera; inginocchiatosi, senza nemmeno averlo deciso, giunse le mani e con parole sincere invocò Santa Monalda. Questa,<br />
continuò il vecchio di rimando ai due occhi ammutoliti di Francesco, era un’antichissima protettrice della Vallemme, dimenticata al pari<br />
deldel tonno di fiume negli anni continuò il