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Le Vite - Fondazione Memofonte

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quale da’ Greci e da noi è chiamata grazia, nell’altre cose molti essere da quanto lui, ma in questo<br />

non aver pari. Di questo altro si dava egli anche vanto, che riguardando i lavori di Protogene con<br />

maraviglia di fatica grande e di pensiero infinito e commendandoli oltre a modo, in tutti diceva<br />

averlo pareggiato e forse in alcuna parte essere da lui vinto, ma in questo senza dubbio essere da<br />

più, perciò che Protogene non sapeva levar mai la mano d’in sul lavoro. Il che, detto da cotale<br />

artefice, si vuole avere per ammaestramento che spesse fiate nuoce la soverchia diligenza.<br />

Fu costui non solamente nell’arte sua eccellentissimo maestro, ma d’animo ancora semplicissimo e<br />

molto sincero, come ne fa fede quello che di lui e di Protogene dicono essere avvenuto. Dimorava<br />

Protogene nell’isola di Rodi sua patria, dove alcuna volta venendo Apelle con desiderio grande di<br />

vedere l’opere di lui, che le udiva molto lodare et egli solamente per fama lo conosceva,<br />

dirittamente si fece menare alla bottega dove ei lavorava, e giunsevi apunto in tempo che egli era ito<br />

altrove; dove entrando Apelle, vidde che egli aveva messo su una gran tavola per dipignerla, et<br />

insieme una vecchia sola a guardia della bottega, la quale, domandandola Apelle del maestro,<br />

rispose lui essere ito fuore. Domandò ella lui chi fusse quegli che ne domandava. “Questi”, rispose<br />

tostamente Apelle, e preso un pennello tirò una linea di colore, sopra quella tavola, di maravigliosa<br />

sottigliezza, et andò via. Torna Protogene, la vecchia gli conta il fatto, guarda egli, e considerata la<br />

sottigliezza di quella linea, s’aviso troppo bene ciò non essere opera d’altri che di Apelle, ché in<br />

altri non caderebbe opera tanto perfetta; e preso il pennello sopra quella istessa d’Apelle d’altro<br />

colo[II. XI]re ne tirò un’altra più sottile, e disse alla vecchia: “Dirai a quel buono uomo, se ci torna,<br />

mostrandoli questa, che questi è quegli che ei va cercando”. E così non molto poi avvenne che<br />

tornato Apelle et udito dalla vecchia il fatto, vergognando d’esser vinto, con un terzo colore partì<br />

quelle linee stesse per lungo il mezzo, non lasciando più luogo veruno ad alcuna sottigliezza; onde<br />

tornando Protogene e considerato la cosa e confessando d’esser vinto, corse al porto cercando<br />

d’Apelle e seco nel menò a casa. Questa tavola, senza altra dipintura vedervisi entro, fu tenuta<br />

degna per questo fatto solo d’esser lungo tempo mantenuta viva, e fu poi come cosa nobile portata a<br />

Roma e nel palazzo degli Imperadori veduta volentieri da ciascuno e sommamente ammirata, e più<br />

da coloro che ne potevano giudicare, tuttoché non vi si vedesse altro che queste linee tanto sottili<br />

che poi apena si potevano scorgere; e fra le altre opere nobilissime fu tenuta cara, e per quello<br />

istesso che entro altro non vi si vedeva, allettava gli occhi de’ riguardanti.<br />

Ebbe questo artefice in costume di non lasciar mai passare un giorno solo che almeno non tirasse<br />

una linea et in qualche parte esercitasse l’arte sua, il che poi venne in proverbio. Usava egli<br />

similmente mettere l’opere sue finite in publico et appresso star nascoso ascoltando quello che altri<br />

ne dicesse, estimando il vulgo d’alcune cose essere buon conoscitore e poterne ben giudicare.<br />

Avvenne, come si dice, che un calzolaio accusò in una pianella d’una figura non so che difetto, e<br />

conoscendo il maestro che e’ diceva il vero, la racconciò. Tornando poi l’altro giorno il medesimo<br />

calzolaio e vedendo il maestro averli creduto nella pianella, cominciò a voler dire non so che di una<br />

delle gambe; di che sdegnato Apelle et uscendo fuori disse proverbiandolo che a calzolaio non<br />

conveniva giudicar più su che la pianella; il qual detto fu anco accettato per proverbio. Fu inoltre<br />

molto piacevole et alla mano e per questo oltre a modo caro ad Alessandro Magno, talmente che<br />

quel re lo andava spesso a visitare a bottega, prendendo diletto di vederlo lavorare et insieme<br />

d’udirlo ragionare. Et ebbe tanto di grazia e di autorità appresso a questo re, benché stizzoso e<br />

bizzarro, che ragionando esso alcune volte della arte di lui meno che saviamente, con bel modo gli<br />

imponeva silenzio mostrandoli i fattorini che macinavano i colori ridersene. Ma quale Alessandro lo<br />

stimasse nell’arte si conobbe per questo, che egli proibì a ciascuno dipintore il ritrarlo fuori che ad<br />

Apelle. E quanto egli lo amasse et avesse caro si vide per questo altro, perciò che, avendoli imposto<br />

Alessandro che gli ritraesse nuda Cansace, una la più bella delle sue concubine la quale esso amava<br />

molto, et accorgendosi per segni manifesti che nel mirarla fiso Apelle s’era acceso della bellezza di<br />

lei, concedendoli Alessandro tutto il suo affetto gnene fece dono, senza aver riguardo anco a lei,<br />

che, essendo amica di re e di Alessandro re, li convenne divenire amica d’un pittore. Furono alcuni<br />

che stimarono che quella Venere Dionea tanto celebrata fusse il ritratto di questa bella femmina.<br />

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