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Le Vite - Fondazione Memofonte

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lontano paese navigavano a Gnido. Fece questo artefice due figure di Venere l’una ignuda e l’altra<br />

vestita, e le vendé un medesimo pregio; la ignuda comperarono quei di Gnido, la quale fu tenuta di<br />

gran lunga migliore e la quale Nicomede re volle da loro comperare offerendo di pagare tutto il<br />

debito che aveva il lor comune, che era grandissimo; i quali elessero innanzi di privarsi d’ogni altra<br />

sustanza e rimaner mendichi che di spogliarsi di così bello ornamento: e fecero saviamente, perciò<br />

che quanto aveva di buono quel luogo, che per altro non era in pregio, lo aveva da questa bella<br />

statua. La cappelletta dove ella si teneva chiusa si apriva d’ogn’intorno, talmente che la bellezza<br />

della Dea, la quale non aveva parte alcuna che non movesse a maraviglia, si poteva per tutto vedere.<br />

Dicesi che fu chi, innamorandosene, si nascose nel tempio e che l’abbracciò, e che [II. XXXIV] del<br />

fatto ne rimase la macchia la quale poi lungo spazio si parve. Erano in Gnido parimente alcune altre<br />

imagini pur di marmo d’altri nobili artefici, come un Bacco di Briaxi et un altro di Scopa et una<br />

Minerva, le quali aggiugnevano infinita lode a quella bella Venere, perciò che queste altre,<br />

avvengaché di buoni maestri, non erano in quel luogo tenute di pregio alcuno. Fu del medesimo<br />

artefice quel bel Cupido il quale Tullio rimproverò a Verre nelle sue accusazioni, e quell’altro per il<br />

quale era solamente tenuta chiara la città di Tespia in Grecia, il quale fu poi a Roma grande<br />

ornamento della scuola di Ottavia. Di mano del medesimo si vedeva un altro Cupido in Pario,<br />

colonia della Propontide, al quale fu fatto la medesima ingiuria che a quella Venere da Gnido,<br />

perciò che uno Alchida rodiano se ne innamorò e dello amore vi lasciò il segnale. A Roma erano<br />

molte delle opere di questo Prassitele: una Flora, uno Triptolemo et una Cerere nel giardino di<br />

Servilio, e nel Campidoglio una figura della Buona Ventura et alcune Baccanti, et al sepolcro di<br />

Pollione uno Sileno, uno Apollo e Nettunno. Rimase di lui un figliuolo chiamato Cefisodoro, erede<br />

del patrimonio e dell’arte insieme, del quale è lodato a maraviglia a Pergamo di Asia una figura, le<br />

dita della quale parevano più veracemente a carne che a marmo impresse. Di costui mano erano<br />

anco in Roma una Latona al tempio d’Apollo Palatino, una Venere al sepolcro di Asinio Pollione, e<br />

drento alla loggia di Ottavia al tempio di Giunone uno Esculapio et una Diana.<br />

Scopa ancora al medesimo tempo fu di chiarissimo nome e con i detti di sopra contese del primo<br />

onore. Fece egli una Venere et un Cupido et un Fetonte, i quali con gran divozione e cirimonie<br />

erano a Samotracia adorati, e lo Apollo detto il Palatino dal luogo dove egli fu consacrato, et una<br />

Vesta che sedeva nel giardino di Servilio e due ministre della Dea apressoli, alle quali due altre<br />

simiglianti pur del medesimo maestro si vedevano fra le cose di Pollione; di cui ancora erano molto<br />

tenute in pregio nel tempio di Gneo Domizio nel Circo Flamminio un Nettunno, una Tetide con<br />

Achille e le sue ninfe a sedere sopra i delfini et altri mostri marini e tritoni e Forco et un coro d’altre<br />

ninfe, tutte opere di sua mano; le quali sole, quando non avesse mai fatto altro in sua vita, sarieno<br />

bastate ad onorarlo. Fuor di queste molte altre se ne vedevano in Roma le quali si sapeva certo che<br />

erano opere di questo artefice, e ciò era un Marte a sedere, un colosso del medesimo al tempio di<br />

Bruto Callaico dal Circo, che si vedeva da chi andava inverso la porta Labicana, e nel medesimo<br />

luogo una Venere tutta ignuda che si tiene che avanzi di bellezza quella famosa da Gnido di<br />

Prassitele. Ma in Roma, per il numero grande che da ogni parte ve n’era stato portato, apena che le<br />

si riconoscessero, ché, oltre alle narrate, ve ne aveva molte altre bellissime. I nomi degli artefici che<br />

le avevano fatte s’erano in tutto perduti, sì come advenne di quella Venere che Vespasiano<br />

imperadore consagrò al tempio della Pace, la quale per la sua bellezza era degna d’essere di<br />

qualunche de’ più nominati artefici opera. Il simigliante advenne nel tempio di Apollo di una Niobe<br />

con i figliuoli la quale dallo arco di Apollo era ferita e pareva che ne morisse, la quale non bene si<br />

sapeva se l’era opera di Prassitele opure di Scopa. Simil[II. XXXV]mente si dubitava di uno Iano, il<br />

quale aveva condotto di Egitto Agusto e nel suo tempio l’aveva consagrato. La medesima dubitanza<br />

rimaneva di quel Cupido che aveva in mano l’arme di Giove che si vedeva nella curia di Ottavia, il<br />

quale si teneva per certo che fusse imagine nella più fiorita età d’Alcibiade ateniese, il quale fu di sì<br />

rara bellezza che tutti gl’altri giovani della sua età trapassò. Parimente non si sa di cui fussero mano<br />

i quattro Satiri che erano nella scuola di Ottavia, de’ quali uno mostrava a Venere Bacco bambino et<br />

un altro Libera pure bambina, il terzo voleva racchetarlo, che piangeva, il quarto con una tazza gli<br />

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