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Le Vite - Fondazione Memofonte

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della arte sua scrisse volumi. Molti furono ancora che in tavole di bronzo di rilèvo scolpirono le<br />

battaglie di Eumene e di Attalo re di Pergamo contro a’ Franciosi i quali passarono in Asia. Tra<br />

costoro furono Firomaco, Stratonico et Antigono, il quale scrisse anco della arte sua. Boeto, benché<br />

fusse maggior maestro nel lavoro di scarpello in argento, nondimeno di sua arte si vide di bronzo un<br />

fanciullo che strangolava una oca. E la maggiore e la miglior parte di cotali opere furono a Roma da<br />

Vespasiano imperadore consagrate al tempio della Pace, e molto maggior numero dalla forza di<br />

Nerone tolte di molti luoghi dove elle erano tenute care, et in quel suo gran palazzo che egli si<br />

fabricò in Roma portate et in varii luoghi per ornamento di quello disposte.<br />

Furono, oltre ai molti raccontati di sopra, altri infiniti i quali ebbero qualche nome di questa arte, li<br />

quali raccontare al presente credo che sarebbe opera perduta, bastando al nostro proponimento aver<br />

fatto memoria di coloro che ebbero nell’arte maggior pregio.<br />

Furono oltre a questi alcuni altri chiari per ritrarre con iscarpello in rame, argento et oro calici et<br />

altro vasellamento da sacrificii e da credenze, come un <strong>Le</strong>sbocle, un Prodoro, un Pitodico e<br />

Polignoto, che furono anco pittori molto chiari, e Stratonico Scinno, il quale dissono che fu<br />

discepolo di Crizia. Fu questa arte di far di bronzo anticamente molto in uso in Italia e lo mostrava<br />

quello Ercole il quale dicono essere stato da Evandro consagrato a Roma nella piazza del Mercato<br />

de’ buoi, il quale si chiamava l’Ercole trionfale però che, quando alcuno cittadino romano entrava<br />

in Roma trionfando, si adornava anco l’Er[cole] di abito trionfale. Medesimamente lo dimostrava<br />

quel Iano che fu consagrato da Numa Pompilio, il tempio del quale o aperto o chiuso dava segno di<br />

guerra o di pace, le dita del quale erano talmente figurate che elle significavano<br />

trecentosessantacinque, [II. XXX] mostrando che era Dio dello anno e della età. Mostravalo ancora<br />

molte altre statue pur di bronzo di maniera toscana sparse per tutta quanta l’Italia. E pare che sia<br />

cosa degna di maraviglia che, essendo questa arte tanto antica in Italia, i Romani di quel tempo<br />

amassero più gli Iddei che essi adoravano ritratti di terra o di legno intagliati che di bronzo,<br />

avendone l’arte, perciò che insino al tempo nel quale fu da’ Romani vinta l’Asia cotali imagini di<br />

Dei ancora si adoravano. Ma poi quella semplicità e povertà romana, così nelle publiche come nelle<br />

private cose, divenne ricca e pomposa e si mutò in tutto il costume, e fu cosa da non lo creder<br />

agevolmente in quanto poco di tempo ella crebbe, che al tempo che M. Scauro fu edile e che egli<br />

fece per le feste publiche lo apparato della piazza (che era ufizio di quel magistrato) si videro, in<br />

uno teatro solo fatto per quella festa et in una scena, tremila statue di bronzo provedutevi et<br />

accattatevi, come allora era usanza di fare, di più luoghi. Mummio, quel che vinse la Grecia, ne<br />

empié Roma, molte ve ne portò Lucullo et in poco tempo ne fu spogliata l’Asia e la Grecia in gran<br />

parte; e con tutto ciò fu chi lasciò scritto che a Rodi in questo tempo n’erano ancora tre migliaia, né<br />

minor numero in Atene né minore ad Olimpia e molto maggiore a Delfo - delle quali le più nobili e<br />

li maestri d’esse noi di sopra abbiamo in qualche parte raccontato. Né solo le imagini degli Dei e le<br />

figure degli uomini rassembrarono, ma ancora d’altri animali, infra i quali nel Campidoglio nel<br />

tempio più secreto di Giunone si vedeva un cane ferito che si leccava la piaga, di sì eccessiva<br />

simiglianza che apena pare che si possa credere; la bellezza della qual figura quanto i Romani<br />

stimassero si può giudicare dal luogo dove essi la guardavano, e molto più che coloro ai quali si<br />

aspettava la guardia del tempio con ciò che drento vi era, non si stimando somma alcuna di denari<br />

pari alla perdita di quella figura se ella fusse stata involata, la devevano guardare a pena della testa.<br />

Né bastò alli nobili artefici imitare e rassembrare le cose secondo che elle sono da natura, ma fecero<br />

ancora statue altissime e bellissime molto sopra il naturale, come fu l’Apollo in Campidoglio alto<br />

trenta braccia, la qual figura Lucullo fece portare a Roma delle terre d’oltre il mar Maggiore, e qual<br />

fu quella di Giove nel Campo Marzio la quale Claudio Agusto vi consagrò che, dalla vicinanza del<br />

teatro di Pompeo, fu chiamato il Giove Pompeiano; e quale ne fu anco una in Taranto fattavi da<br />

Lisippo alta ben trenta braccia, la quale con la grandezza sua da Fabio Massimo si difese allora<br />

quando la seconda volta prese quella città, non si potendo quindi se non con gran fatica levare, ché,<br />

come ne portò l’Ercole che era in Campidoglio, così anco ne arebbe seco quella a Roma portata. Ma<br />

tutte l’altre maraviglie di così fatte cose avanzò di gran lunga quel colosso che a’ Rodiani in onor<br />

del Sole, in cui guardia era quella isola, fece Carete da Lindo discepolo di Lisippo, il quale dicono<br />

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