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Un’odissea de rimas nobas 161<br />

all’esperienza del poeta e dell’intellettuale baroniese che tende<br />

a condensare in sentenze il succo della vita.<br />

Un posto a parte occupa la poesia di Francesco Zedda (Cagliari<br />

1907-1991) che persegue un modello di sublime volo poetico<br />

che nell’immediato dopoguerra ripercorre le tappe più limpide<br />

della lirica dannunziana. La cantica del re (poema, Milano<br />

1947), intende riproporre l’operazione che il Macpherson aveva<br />

compiuto con la traduzione dell’Ossian, fingendo di comporre il<br />

poema utilizzando “qualche elemento de Sos cantigos de sa solidade,<br />

antichi canti popolari sardi, attribuiti al poeta Cino re di<br />

<strong>Sardegna</strong>, figlio della celebre regina Eleonora d’Arborea”, e lascia<br />

ai filologi il compito di “separare le antiche rapsodie sarde dalla<br />

poesia moderna e la storia dalla leggenda”. Già dai sostantivi dei<br />

titoli, “canto”, “cantico”, la poesia di Zedda rivela la predilezione<br />

per una scansione epica dell’endecasillabo su un registro alto.<br />

Finissimo conoscitore della poesia di ogni tempo, amico di<br />

Montale e di Quasimodo, non si è mai lasciato attrarre dalla poesia<br />

dei lirici nuovi e degli ermetici, ma ha continuato una sua<br />

autonoma linea di ricerca poetica che predilige i grandi temi del<br />

rapporto tra l’io e il tempo e della poesia come confronto con<br />

l’eternità. Si può dire che, dalla sua opera, dal Canto dell’angelo<br />

muto (Milano 1947), a Il cantico del mare (ivi 1986; ediz. accresciuta<br />

1992), Otto poesie (Cagliari 1990), affiora un’Isola che diviene<br />

metafora lirica dell’urto contro il tempo che distrugge ogni<br />

monumento e ogni relitto di qualsiasi civiltà, ma non della poesia<br />

che intanto riscatta, col suo volo, l’individuo. Una poesia sostanzialmente<br />

controcorrente che, come del resto la sua opera

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