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182<br />

NICOLA TANDA<br />

“tre corone” (Carducci, Pascoli, D’Annunzio) rappresentate,<br />

in italiano, da Sebastiano Satta, e quelli parnassiani e simbolisti<br />

sperimentati in lingua sarda, da Peppino Mereu. Il poeta<br />

che in questo ambito e su questi presupposti aveva goduto di<br />

maggior credito, era, fino agli anni Cinquanta, Montanaru,<br />

pseudonimo di Antioco Casula (Desulo 1878 - Cagliari 1957),<br />

nel quale la dipendenza sattiana appariva più scoperta. Nei<br />

primi anni Cinquanta però la lingua poetica sarda si avvia a<br />

percorrere, d’un tratto, le tappe che da Pascoli, attraverso<br />

l’esperienza dannunziana e le deflagrazioni delle avanguardie<br />

approdano agli “erbosi fossi”, all’analogismo e ai procedimenti<br />

formali dei Lirici nuovi e degli Ermetici e alle esperienze del<br />

surrealismo ispanico contemporaneo. Un percorso certamente<br />

più congeniale alla vecchia lingua sarda che recuperava così un<br />

tono medio, un registro meno sostenuto, timbri meno squillanti<br />

che consentivano un amalgama dello straordinario materiale<br />

fonico - ritmico in cui esperienze nuove e vissuti individuali<br />

scoprivano nuovi significanti. Questo rifiorire della poesia<br />

sarda era dovuto alla rinuncia ai modelli di Sebastiano Satta,<br />

il quale aveva certo contribuito a costituire un repertorio<br />

simbolico, peraltro ambivalente, ma che ha trattenuto la nostra<br />

lirica su un terreno culturalmente e linguisticamente incerto<br />

nelle scelte stilistiche e nelle decisioni morali. Un repertorio<br />

collegato a un tono alto, solenne e declamato, insostenibile<br />

come un acuto, che ha rallentato il fluire della lirica sarda, nutrita<br />

di quotidianità e di abnegazione, nel suo alveo silenzioso e<br />

appartato. Ha insomma disseminato stereotipi ingombranti, i

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