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Un’odissea de rimas nobas 227
suefatto il pubblico a una ricezione e ad una competenza passiva
del codice letterario che ha finito per mortificare la competenza
del linguaggio poetico e quindi la creatività stessa. Le conseguenze
si sono avute nel settore della letteratura, ma anche e soprattutto
nell’arte e nel cinema. Nella dilemmatica alternativa tra
l’essere grandi e geniali, almeno quanto Dante, o il non essere, i
più si sono sentiti scoraggiati dal tentare le vie così impervie
dell’arte o più semplicemente dell’impiego della lingua letteraria
e hanno rinunciato a scrivere e, quando anche avessero scritto, a
pubblicare.
Ma se la scuola è ancora, in misura inaccettabile, ancorata a
questi schemi, è naturale che non produca né lettori né produttori
di cultura. La crisi del libro infatti non pare destinata ad arrestarsi,
a stabilizzarsi o a regredire finché nella scuola non passa
quella riforma del sapere indotta dalla antropologia, dalla linguistica,
dalla semiotica, dall’estetica e dall’ermeneutica. Insomma
finché non passa una concezione della letteratura che tenga conto
della comunicazione e della funzione poetica del linguaggio e
non svolga un ruolo più attivo e diffuso stimolando la crescita di
produttori e di lettori di testi.
Ma le considerazioni da fare non sono solo queste. Esiste
l’altro grande portato del distacco dalla quotidianità e dalla realtà.
Il fatto che l’individuo non costituisce più il centro di osservazione
di se stesso e del mondo che lo circonda. Manca il presupposto,
la consapevolezza che la conoscenza comincia nello
spazio, dalla geografia. Occorre che l’io insista sul territorio e organizzi
le sue conoscenze a partire dal presupposto che la lingua