Verso una maggiore integrazione dell'agricoltura nella ...
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Tematica della ricerca<br />
Oltre alla proposizione di nuovi strumenti operativi, viene anche sottolineata la<br />
necessità di <strong>una</strong> nuova «figura di operatore sul territorio, capace anche di promuovere<br />
forme di associazionismo e cooperazione e profondo conoscitore della<br />
realtà socio-economica su cui deve operare» (Giustinelli, 1978: 45).<br />
Per quanto riguarda il livello d’intervento adeguato per individuare soluzioni<br />
economiche e spaziali appropriate per il rilancio della produzione agricola, la scala<br />
di intervento a livello com<strong>una</strong>le è avvertita come «troppo ridotta dal punto di<br />
vista territoriale, demografico ed economico» (Patrizi, 1983: 157). Alcuni studiosi<br />
concordano sul fatto che la migliore scala di intervento sia quella dei comprensori<br />
39 , che vengono visti come «luogo di saldatura tra pianificazione urbanistica e<br />
pianificazioni agricole» (Predieri, 1978: 68), assumendo il livello intermedio di<br />
programmazione come quello più adeguato, per dare <strong>una</strong> risposta nuova ai problemi<br />
della riorganizzazione amministrativa territoriale. Si tratta di <strong>una</strong> soluzione<br />
che non può prescindere dalla necessità di attuare politiche concertate e condivise,<br />
che riescano a coinvolgere tutti gli attori economici presenti in un determinato territorio.<br />
Nonostante le problematiche fossero chiaramente delineate, le proposte avanzate,<br />
finalizzate ad introdurre efficaci soluzioni per risolverle, sul piano operativo<br />
non hanno dato buoni risultati. I piani territoriali per l’agricoltura non sono riusciti<br />
ad avere <strong>una</strong> reale incidenza e i piani zonali agricoli, gli strumenti più usati per<br />
normare le aree agricole, introdotti già negli anni Sessanta, hanno presentato diversi<br />
limiti che ne hanno ridotto l’efficacia. Tra questi la disarticolazione nel processo<br />
di piano tra programmazione e attuazione, accentuata dalla difficoltà di coordinamento<br />
dei soggetti coinvolti (le Istituzioni locali, gli Enti preposti al piano<br />
come Enti di sviluppo agricolo, le comunità sociali e gli operatori) (Karrer, 1983),<br />
ma soprattutto la mancanza di un quadro di riferimento a livello regionale con<br />
l’indicazione delle zone, delle opzioni tra i vari settori produttivi e degli obiettivi<br />
da raggiungere (Masini, 1995).<br />
Neppure la via della “pianificazione comprensoriale” indicata da Samonà per il<br />
Piano provinciale del Trentino (1968), ma sperimentata anche da altre regioni tra<br />
cui l’Umbria, è approdata a concreti risultati. L’insuccesso della dimensione comprensoriale<br />
è stato attribuito in parte «alla debolezza politica dell’associazione tra<br />
comuni ai fini della pianificazione, ma soprattutto […] alla divergenza e mutevolezza<br />
nel tempo dei problemi più rilevanti che i singoli comuni del comprensorio<br />
si trovano ad affrontare, oltre che al carattere di gestione dell’immediato che ha<br />
assunto l’azione politica […], per sua natura non favorevole ad <strong>una</strong> pianificazio-<br />
39 Una dimensione “comprensoriale” era stata attribuita dalla legge istitutiva (L n. 1102/1971, “Nuove norme per lo sviluppo<br />
della montagna”) alle Comunità Montane, considerate come strumenti per favorire “la partecipazione delle popolazioni<br />
[…] alla predisposizione e alla attuazione dei programmi di sviluppo e dei piani territoriali dei rispettivi comprensori<br />
montani”. La legge n. 352/1976, (“Attuazione della direttiva comunitaria sull’agricoltura di montagna e talune zone svantaggiate”)<br />
prevedeva che le Regioni potessero costituire “comprensori” e promuovere consorzi di Comuni per la programmazione<br />
e gestione delle misure in favore delle zone svantaggiate.<br />
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