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AVIS DE DROIT PROTECTION DES SIGNES NATIONAUX

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ITALIE<br />

senza che vi fosse alcun riferimento all'origine estera dei prodotti. Ebbene, con riguardo a<br />

tali situazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’etichetta recante il nome della società<br />

seguito dalla dicitura «ITALY» o un’indicazione del nome della società accompagnato da<br />

una striscia recante i colori della bandiera italiana, non sia idonea ad indicare il luogo di<br />

fabbricazione della merce (se così fosse, la dicitura «ITALY» costituirebbe una indicazione<br />

falsa o fallace punibile ex art. 4 comma 49 della lex 350/2003 nonché ex art. 517 c.p.) ma<br />

indica semplicemente il nome e la nazionalità del produttore, che è il soggetto garante e<br />

responsabile del prodotto finale nei confronti del consumatore 200 .<br />

Si è sostenuto che «la vendita di prodotti che riportino illegittimamente il marchio “made in<br />

Italy”, oltre al reato di cui all’art. 517 c.p. richiamato dalla l. 350/2003, può integrare gli estremi<br />

del reato di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 c.p., fattispecie punita più<br />

severamente rispetto alla vendita di prodotti industriali con segni mendaci; in caso di effettiva<br />

consegna dei prodotti con la falsa indicazione, potrebbe configurarsi il concorso materiale dei<br />

due reati». In ambito civile, si è detto che «la fattispecie della falsa apposizione del marchio<br />

d’origine potrebbe rientrare nel campo di applicazione dell’art. 2598 c.c., che disciplina la<br />

concorrenza sleale, e in particolare essere ricondotta all’ipotesi di cui al n. 3), secondo la quale<br />

compie atti di concorrenza sleale chiunque ‘si vale direttamente o indirettamente di ogni<br />

altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a<br />

danneggiare l'altrui azienda’» 201 .<br />

La natura giuridica dell’espressione «made in Italy» ha fatto oggetto di discussione. Quattro<br />

ipotesi sono in astratto concepibili: si tratterebbe di un marchio tout court, di un marchio<br />

collettivo, di un marchio di origine, o di una semplice indicazione di provenienza. Poiché<br />

non è necessario che chi utilizza l’espressione «made in Italy» ottenga una autorizzazione<br />

o licenza da alcuno, la dottrina a concluso che «evidentemente, il più corretto<br />

inquadramento giuridico dell’espressione ‘made in Italy’, pertanto, è quella di una<br />

indicazione d’origine» 202 .<br />

Diversa è invece la problematica relativa all’eventuale esistenza di un obbligo di indicazione del<br />

luogo di effettiva fabbricazione del prodotto. Al riguardo in Italia e in Europa (diversamente che<br />

negli Stati Uniti) non vi è nessuna norma che impone di indicare il luogo materiale di<br />

fabbricazione. I commi 61 e 63 dell’art. 4 della legge 350/2003 si sono limitati a demandare<br />

alla successiva normazione secondaria (regolamento delegato) l'istituzione e la tutela del «Made<br />

in Italy» per contraddistinguere i prodotti fabbricati in Italia. Pertanto, alla luce della normativa<br />

attuale, mentre esiste l’obbligo, per chi commercializza prodotti diretti a consumatori, di<br />

indicare la propria ragione sociale sul prodotto importato e commercializzato nell'Unione<br />

Europea, non sussiste invece l'obbligo di indicare sui prodotti importati il Paese d’origine degli<br />

stessi.<br />

200<br />

Cass. Pen. n. 3352 21 ottobre 2004-2 febbraio 2005; Cass. Pen. n. 13712 del 14 aprile 2005)<br />

201<br />

N. Picchi, « Marchio d’origine : ipotesi di tutela del ‘made in Italy’ e quadro normativo internazionale<br />

», cit., p. 16.<br />

202<br />

A. Sirotti Gaudenzi, cit., p. 146.<br />

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