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Ghermita al cuore - Sardegna Cultura

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S’era tratto indietro nel piccolo canto oscuro dello stambugio,<br />

come se si trovasse dinanzi a una santa.<br />

Giromìnu l’aveva accompagnato fino <strong>al</strong>la piccola stazione<br />

delle ferrovie secondarie perduta sulla povera montagna<br />

grave di silenzio, e fino <strong>al</strong>l’ultimo momento aveva affondato<br />

lo stile nel suo <strong>cuore</strong> pigro e intorpidito. «Ricordati!» gli<br />

aveva urlato «e scrivi! Coraggio e colpo sicuro!».<br />

E quand’egli era stato trascinato via d<strong>al</strong> piccolo trenino<br />

cigolante e dondolante per quella via fiancheggiata da gruppi<br />

di massi sforacchiati e puntuti e da boscaglie stormenti, i due<br />

supremi avvisi gli rombavano ancora nell’orecchio confusi in<br />

uno: – Ricordati che l’ho amato! Uccidilo! –. E il viaggio<br />

lungo fu tutto un incubo tormentoso.<br />

Ma forse più tormentosa fu per la madre la vana aspettazione<br />

di due interminabili settimane, trascorse mutamente<br />

nel gelo, con l’orecchio intento a ogni minimo sfrascare,<br />

a ogni più leggero rumore di passi, a ogni minimo abbàio<br />

di cane, se mai sul piccolo sentiero della costa comparisse<br />

l’uomo con la lettera attesa, messaggera di vita.<br />

La lettera venne, ma era diretta <strong>al</strong> fratello. Diadoru non<br />

aveva mai scritto <strong>al</strong>lo zio Giromìnu: perciò la novità la spaventò.<br />

Certo in quello scritto si parlava dell’orrendo affare…<br />

Che cosa era avvenuto? Aveva vinto l’amore o l’odio<br />

in quel povero <strong>cuore</strong> violentato? L’aveva ucciso? Era stato<br />

arrestato? Oh Dio! che ore torbide: che notte di delirio!<br />

Il giorno dopo si procurò la lettera a prezzo di sangue<br />

dell’anima, strisciandosi ginocchioni ai piedi della cognata,<br />

supplicandola come una regina per una grazia di vita: e<br />

l’ebbe per un’ora e se l’impresse nel <strong>cuore</strong>.<br />

«Zio mio, non posso! Fatemi quel che volete: chiamatemi<br />

vile, schiaffeggiatemi, c<strong>al</strong>pestatemi come uno straccio, cacciatemi<br />

per sempre da codesti luoghi che mi videro nascere e mi<br />

diedero le uniche gioie della vita: non posso! Mi contenterò di<br />

vagare per il mondo senza pane, senza una pietra ove posare il<br />

capo, m<strong>al</strong> coperto di stracci, piuttosto che essere assassino anche<br />

ammantato di porpora. No: macchiarmi di sangue, mai!<br />

E perché non credeste che la mia potesse essere una risoluzione<br />

presa senza dibattito e senza sforzo, ho aspettato<br />

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appunto così lungo tempo a manifestarvela. Lungo tempo<br />

veramente, sapete, se si pensi che io li ho vegliati tutti, questi<br />

quindici eterni giorni di strazi indicibili (giacché non<br />

chiamo ore di sonno ma anni di torture quelle in cui ho<br />

potuto chiudere gli occhi stanchi per sogni di febbricitante):<br />

e li ho vegliati con continua intensità di sentimento che<br />

moltiplicava in me la vita e mi struggeva e m’ammazzava…<br />

Durante questo tempo mi sono aggirato per la città e<br />

per le campagne come un pazzo. Il corso più affollato, le<br />

piazze più gremite, erano per me (vedete s’io non sia amm<strong>al</strong>ato!)<br />

come selve d’<strong>al</strong>beri stecchiti che si movessero e si<br />

sbattessero gli uni contro gli <strong>al</strong>tri dando stridori cupi come<br />

di met<strong>al</strong>lo. Il teatro, la chiesa, mi sembravano brulicanti<br />

d’esseri viscidi che <strong>al</strong>zassero in <strong>al</strong>to tentacoli di vampiri e<br />

sgranassero occhi di brace. Il quartiere mi pareva una prigione<br />

serrata, soffocante, in cui fossi stato rinchiuso per attendere<br />

lentamente la morte… E pianto lungo di morte mi<br />

pareva l’accordo delle cento campane dei villaggi sparsi su<br />

questa deliziosa pianura che pur di tanta dolcezza aveva<br />

inondato il mio <strong>cuore</strong> nei vesperi m<strong>al</strong>inconici d’autunno.<br />

Mi curvavo sul lavoro, facendo sforzi indicibili per concentrare<br />

il mio pensiero: ma le mie idee vagavano disperse<br />

come in campi di follia. – Figlio caro! – mi diceva il capitano;<br />

e io tremavo, come se il dolce nome mi venisse d<strong>al</strong><br />

maggiore; – tu vai perdendo la testa! Tu non mi scrivi niente<br />

come va scritto! –. E aveva ragione; perché anche a me<br />

pareva di perdere la testa.<br />

Intanto le vostre parole mi zufolavano sempre nella mente,<br />

qu<strong>al</strong>che volta mi ruggivano nell’animo, mi davano dei soprass<strong>al</strong>ti.<br />

E il senso di quelle parole mi veniva reso t<strong>al</strong>volta<br />

anche d<strong>al</strong>lo strepito delle cose insensibili; d<strong>al</strong>lo stormire degli<br />

<strong>al</strong>beri, d<strong>al</strong> fragore della cascata… Oh quante volte, visitando<br />

questo ammirabile parco re<strong>al</strong>e, che <strong>al</strong>tre volte aveva suscitato<br />

in me così dolci e profonde impressioni, mi parve d’udire,<br />

nello sfriggolio dei zampilli sprizzanti d<strong>al</strong>la bocca dei delfini<br />

e dai mostri di marmo e nello scroscio sordo di quel magnifico<br />

getto spumoso, le vostre parole: «Uccidilo! Coraggio e colpo<br />

sicuro!». Quante volte mi è parso di leggere l’ultimo vostro<br />

s<strong>al</strong>uto sulla polvere dei vi<strong>al</strong>i maestosi, sulla superficie<br />

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