Ghermita al cuore - Sardegna Cultura

– Eh via! – interrompeva un giovane, che riposava. – Dite
così perché avete invidia, perché non potete più ballar voi.
Del resto questi balli sono molto più belli dei vostri, e…
Fu come se avesse detto un’eresia. – Taci! – fu un coro
di voci. – Sta zitto! Se dici questo, puoi dire anche che non
v’è Dio!
– Più belli dei nostri?! Valeva più il nostro ballo zoppo
che…
– E il nostro frascone?
– E il ballo dei tre?
– E il ballo dei ricchi? e il ballo tondo? e la danza?
– Altro che queste vostre porcherie di vàlzari, di masulche,
di polche, o come diavolo le chiamano?!
– Ballano la scena, – spiegava il giovane; – quella che
ballano in Francia; e parlano anche in francese, se li volete
ascoltare.
Si udivano infatti gli ordini di chi comandava alla pastorale
quella caricatura di contraddanza: – Scena! Coscia!
Adruatta! Form’a buchette! Saliu e vò dame! –. E a ogni nuova
figura era un tira-ammolla, un urtarsi, un abbaruffarsi, un
gridio, un tramenio da tregenda. – No, non così! – A destra,
tu! – A manca! – Dammi la mano a me tu, mammalucco!
– ’Gnuleddha, con compare Jolgiu! –. E scrosci di riso, e
ciuciate, e urlate. Una frenesia.
I vecchi si turavan gli orecchi, si mettevan la mano sugli
occhi. – Ai tempi nostri, questa confusione infernale si faceva
all’ultima ora del carnevale, nell’ultimo sforzo, prima che
toccasse la mezzanotte. Allora tutto valeva. Ma poi! Pucci, in
ora mala!
Gli appunti continuavano, ma i ballerini non li udivano
neppure. Giovani e fanciulle si isolavano nella loro mania,
dimentichi di tutto, insensibili al sole, che li saettava
dall’alto, noncuranti della polvere che inghiottivano e che li
avvolgeva come vaporoso velo, resistenti alla sete, alle fatiche,
ai motteggi, agli urtoni, agli insulti, sudati, accaldati,
avvinti nel tramestio da un’ebbrezza comune e contagiosa,
affascinati e fortificati dalla loro più bella fata: la primavera
degli anni; e si aggiravano vorticosamente, pazzamente, con
tanto maggior trasporto quanto più si avvicinava la fine.
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E dopo la contraddanza venne anche il ballo dell’amore.
Una coppia sola faceva pochi giri. Poi i ballerini si separavano,
e avveniva tra loro un dialogo simile a questo:
– Ohi ahi!
– E cos’hai?
– Son ferito!
– E dove?
– Al cuore!
– Perché?
– Per lo stesso (o per un altro) amore!
Se si diceva «per lo stesso amore» gli stessi giovani ricominciavano
il ballo, per interromperlo subito dopo e ritessere
lo stesso dialogo; se si diceva «per un altro amore» il rifiutato
cercava tra le ragazze o gli uomini in riposo la ballerina o il
ballerino che il compagno o la compagna preferiva: e quando
aveva indovinato, glie lo menava davanti e glie l’offriva. Così
il gioco tornava da capo.
Il punto della piaga poteva anche variare, secondo lo
spirito dei danzanti; e la necessità della rima dava luogo a
delle stravaganze. La tale era ferita al petto per lo stesso o
per un altro giovinetto, per quel bello, simpatico, incantevole
giovinetto; al calcagno, per quel furfante galeotto da
bagno: al dito, per quel musaccio di bandito; il tale poteva
essere ferito… alla calzetta… per quell’ammirabile giovinetta:
alla cintura, per quell’amabile creatura: al ginocchio, per
quella strega da maldocchio: alla ventriera, per quell’avanzo
di galera: all’ascella, per una brillante stella…
Il medico, che naturalmente, sapeva anatomia, le trovava
sempre nuove e strane. Egli era ferito: alla caviglia, per
questa meraviglia; al bregma, per una contessina con lo
stemma; al diaframma, per questa deliziosa fiamma; alla narice,
per la nostra famosa vincitrice; e la maraviglia, la contessina,
la fiamma, la vincitrice, era sempre una stessa persona:
Mena. Costei poi non si stillava tanto il cervello per
cercar novità: si appagava delle risposte usuali, che ripeteva
sempre, a rischio di riuscir noiosa…: al cuore, per il dottore!
Anche Spiranza aveva trovato una rima punto difficile,
punto imaginosa, per quanto molto comoda: – Ohi ahi – E
cos’hai? – Son ferita! – E dove? – Al dente! – Perché? – Per il
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