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"L'Eneide",

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de l'auriga Metisco accorre e rende<br />

la daunia diva al fratel suo la spada.<br />

Venere, irata che a l'audace ninfa<br />

tanto sia dato, s'accostò, la lancia<br />

da la profonda radica divelse.<br />

Ritti, d'animo e d'armi ristorati,<br />

l'uno fidente ne la spada e l'altro<br />

per l'asta ardito e altero, stetter quelli<br />

a fronte in gara di affannoso marte.<br />

Intanto il Sire de l'onnipotente<br />

Olimpo dice a Giuno che guardava<br />

da una cerula nuvola le pugne:<br />

"E quando sarà il fin, consorte? ancora<br />

che resta? Il sai, e di saper confessi<br />

tu pur, che al ciel si deve e dal destino<br />

è l'indigete Enea portato agli astri.<br />

Or che ardisci? per qual ti stai speranza<br />

tra i freddi nembi? E bello fu che un dio<br />

fosse dal colpo di un mortal ferito,<br />

a Turno resa la rapita spada<br />

(che mai poteva senza te Giuturna?)<br />

e cresciute le forze a' vinti? Oh! alfine<br />

desisti e piega a la preghiera nostra:<br />

né taciturna un tal cruccio ti roda<br />

né amari a me da la tua dolce bocca<br />

suonin sí spesso affanni. È l'ora, è l'ora.<br />

Potesti travagliar per terre e mari<br />

i Troiani, attizzar nefanda guerra,

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