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Sulla soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente - Studi culturali e ...

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170 IAIN CHAMBERS<br />

guadagnare nella produzione in serie di case, uffici, centri commerciali<br />

e supermercati.<br />

Tuttavia mi pare che domande di questo tipo ci costringano a<br />

ritornare alla questione <strong>del</strong>l’architettura, a prendere sul serio la<br />

storia <strong>del</strong>l’edificio e <strong>del</strong>l’abitazione, per non parlare <strong>del</strong>la forza<br />

<strong>del</strong>la metafora stessa, sia per quanto riguarda i suoi scopi che i<br />

suoi limiti. Questo perché costruire, edificare e abitare un luogo<br />

significa inevitabilmente stabilire dei limiti: come minimo tra un<br />

interno e un esterno, tra i confini controllati <strong>del</strong>la domesticità curata<br />

e l’inclemenza insubordinata <strong>del</strong> disabitato, <strong>del</strong> selvaggio.<br />

Ovviamente, da Freud in poi, o meglio, come ci ricorda Lyotard,<br />

dalla tragedia greca, sappiamo che questa architettura è illusoria,<br />

che il selvaggio, l’indomato, il represso, si infiltra sempre nella<br />

scena domestica: la porta è porosa (Lyotard 1997).<br />

Attraverso la porta, “il limitato e l’illimitato si uniscono reciprocamente,<br />

non nella forma geometrica morta di un semplice<br />

muro separatore, bensì come possibilità di un interscambio permanente”<br />

(Simmel 1997, p. 68). Eccoci di ritorno al luogo in cui si<br />

deve erigere l’edificio, uno spazio che non è vuoto ma saturato, un<br />

terreno che non è neutrale e muto, ma che si trova già iscritto, già<br />

vissuto. Lo ribadiamo: prendiamo alloggio nel perturbante. Ma in<br />

che modo, dato che l’autorità <strong>del</strong>l’architettura è insita nel gesto<br />

<strong>del</strong>la fondazione, dato che apparentemente occorre uno spazio<br />

vuoto per realizzare le sue ambizioni, si può costruire su un terreno<br />

assai più compromesso, irregolare e infestato, ovverosia, com’è<br />

possibile prenderlo in considerazione invece che negarlo?<br />

La risposta va cercata nella tradizione. Non nell’angusta tradizione<br />

di un’architettura occidentale, che è diventata la pratica<br />

globale <strong>del</strong>le tecniche e <strong>del</strong>la tecnologia <strong>del</strong>la costruzione che è<br />

assurta al ruolo di dominatrice <strong>del</strong>la realizzazione <strong>del</strong>l’habitat<br />

moderno e <strong>del</strong>la “clonazione degli skyline americani per tutto il<br />

<strong>mondo</strong>” (Morris 1990). Piuttosto, la tradizione che si evoca qui è<br />

quella inquietante e interrogativa <strong>del</strong>l’abitare la terra sotto il cielo,<br />

in cui le tematiche <strong>del</strong>la “libertà” e <strong>del</strong>l’“azione” esistono in<br />

prossimità <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> invece che essere in debito nei confronti<br />

<strong>del</strong>l’umanesimo astratto <strong>del</strong> soggettivismo occidentale (e <strong>del</strong> suo<br />

culmine metafisico rappresentato dal razionalismo tecnologico).<br />

Questo implicherebbe uno spostamento da un’architettura dedita<br />

a progettare edifici a un’architettura impegnata nell’identifica-

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