Sulla soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente - Studi culturali e ...
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212 IAIN CHAMBERS<br />
<strong>del</strong>la critica occidentale e <strong>del</strong>le sue pretese sul <strong>mondo</strong>. Questo<br />
perché, qualunque rappresentazione sia oggetto di osservazione<br />
(la vita contemporanea nei villaggi <strong>del</strong>l’Indonesia meridionale,<br />
il primo contatto tra l’Europa e le Americhe nel Cinquecento,<br />
le vestigia eterne <strong>del</strong>la magia nella metropoli moderna),<br />
l’analisi è costretta ad affrontare una relazione con l’alterità<br />
che non è possibile contenere nell’ambito <strong>del</strong> linguaggio disponibile<br />
(Tsing 1993). Quello che viene afferrato, carpito,<br />
concettualizzato (“concetto” deriva dal latino cum-capio, ossia<br />
“afferrare”) non può essere considerato isolatamente, perché<br />
ingloba qualcosa che permea ed eccede la voce <strong>del</strong> critico.<br />
Analizzare significa rendere il proprio linguaggio soggetto al<br />
dubbio, aprirlo a un processo di mondità che non può essere<br />
controllato da un autore o da un’autorità individuali. L’analista<br />
e l’oggetto di analisi vengono uniti e mediati attraverso il <strong>mondo</strong><br />
rappresentato: la comprensione <strong>del</strong> secondo (ossia “l’oggetto”<br />
<strong>del</strong>l’indagine”) non è separabile dalla comprensione <strong>del</strong><br />
primo (il “soggetto” che indaga). Essi esistono in un processo<br />
di iscrizione nel <strong>mondo</strong>, ma né come oggetto, né come soggetto.<br />
Sebbene negati sistematicamente nella neutralità <strong>del</strong>l’esposizione<br />
critica, ognuno autorizza l’altro in un linguaggio che<br />
nessuno dei due possiede <strong>del</strong> tutto. Non c’è una realtà testuale<br />
(o etnografica) che attende di essere interpretata, bensì un’esperienza<br />
testuale (o etnografica) in cui chi vi prende parte viene<br />
iscritto e articolato nell’atto che precede e supera l’interpretazione<br />
(Clifford 1988).<br />
Le differenze <strong>culturali</strong>, storiche ed economiche, le questioni<br />
di potere, subalternità e discriminazione, per quanto sovente distinte<br />
in categorie e realtà non comunicanti, vengono incessantemente<br />
avvicinate. Non c’è bisogno di notare che la vicinanza cui<br />
ci si riferisce in questa sede trova di rado riconoscimento in termini<br />
politici o economici; gli interessi che godono <strong>del</strong> mantenimento<br />
<strong>del</strong>le distanze sono troppo potenti per consentirlo. Alla<br />
fine, persino l’etnologo, persino il critico, in quanto rappresentanti<br />
limitati <strong>del</strong>l’autorità occidentale, hanno sempre l’ultima<br />
parola. Tuttavia, al di là <strong>del</strong>l’immediatezza di questi risultati, il<br />
dialogo inaugurato persevera come presenza sregolata, destinata<br />
a fare ritorno a più riprese, per mettere alla prova, distruggere e<br />
superare i limiti <strong>del</strong> discorso che tenta di limitarla. La verità che