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Sulla soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente - Studi culturali e ...

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178 IAIN CHAMBERS<br />

quanto sia povero e sfruttato, rimane sistematicamente un usurpatore.<br />

La catena <strong>del</strong> dislocamento globale inaugurata dall’imperialismo<br />

moderno è complessa e codificata, producendo subalternità che sono<br />

allo stesso tempo collegate eppure spesso incommensurabili.<br />

Oggi queste storie multiple, represse e ineguali ritornano per<br />

dislocare radicalmente le pretese unilaterali di possedere un linguaggio,<br />

una cultura, una storia, una città, una nazione, una “casa”,<br />

abitando e strutturando diversamente questi linguaggi, raccontando<br />

la modernità con un altro lessico in un’altra chiave.<br />

L’“indigeno” sterminato, l’“esule” bandito, lo “straniero” disprezzato<br />

ritorna continuamente per infestare la modernità e la<br />

confortante protezione <strong>del</strong>la stabilità e <strong>del</strong>la continuiità. Ma non<br />

semplicemente per proporre la disseminazione e la disperzione<br />

<strong>del</strong>la grammatica euroamericana <strong>del</strong> potere da parte <strong>del</strong> subalterno<br />

e di chi prima era escluso; ma, soprattutto, e più precisamente,<br />

per chiedere con insistenza l’interruzione <strong>del</strong>la pretesa <strong>del</strong>la privativa<br />

storica e culturale e <strong>del</strong> “progresso” (chi ha costruito questa<br />

casa, e di chi è questa casa?); un interruzione che mi costringa<br />

a riflettere su come non ci sia storia, cultura o identità che sia immune<br />

dall’esposizione alla risposta e alla responsabilità <strong>del</strong>l’interrogativo<br />

che scaturisce dalla presenza <strong>del</strong>l’estraneo, dalla vicinanza<br />

<strong>del</strong>l’altro. Come ci ha ricordato Johannes Fabian (1999), nell’incontro<br />

con l’alterità, lo sforzo di mantenere una distanza gerarchica<br />

impedisce di ricordare da dove veniamo: una casa ibrida,<br />

infestata da riti storici, pregiudizi <strong>culturali</strong> e superstizioni sociali.<br />

Per citare il suggestivo lavoro di Paul Carter (1996) intitolato<br />

The Lie of the Land, questa prospettiva potrebbe implicare un’inversione<br />

o un rovesciamento <strong>del</strong>le connotazioni generalmente negative<br />

<strong>del</strong>la migrazione e <strong>del</strong>l’esilio, perché la migrazione e l’esilio<br />

vengono immancabilmente considerati eccentrici, indice di impoverimento<br />

culturale. Questo verdetto, asserisce Carter, deriva da:<br />

un programma politico, dalle ambizioni centraliste <strong>del</strong>la polis ateniese<br />

e dai suoi apologisti. La sfida, quantomeno per la poetica postcoloniale,<br />

è vedere in che modo la migrazione potrebbe comportare<br />

una forma di collocazione, potrebbe essere effettivamente costituzionale<br />

e rappresentare una modalità <strong>del</strong> sentirsi a casa nel <strong>mondo</strong>. La<br />

storia <strong>del</strong>la cultura occidentale si limita a una sequenza di recinzioni<br />

scientifiche e tecnologiche sempre più astratte che progressivamente

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