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cospirazioni, economia e società - biblioteca telematica

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Dello stesso Tomajoli ricordiamo una strofa dell’ode composta dopo l’efferata uccisione dei<br />

Cinque 248 :<br />

(...) Cinqu settembri si mossi na guerra,<br />

Micheli Bello cu Roccu Virduci,<br />

E Sarvaturi di lu Biancu sferra,<br />

Ed a Gaetanu Ruffo si conduci;<br />

Petru Mazzuni la bandera afferra,<br />

- Viva l’Italia!; gridanu a na vuci.<br />

L’hannu jettati cu li spalli a terra;<br />

L’hannu ammazzati tutti, là a la Cruci (...).<br />

La comitiva rimase di ghiaccio e nello stesso tempo con molto tatto sollecitò il Tomajoli a raccontare<br />

il triste avvenimento 249 . Il poeta Ilario era stato preventivamente fatto arrestare nella farmacia di Paolo Frascà<br />

dal Bonafede, che aveva intuito qualche movimento in quel di Bianco. A Gerace al Tomajoli «fu tolta ogni<br />

maniera di aiutare la rivoluzione» 250 . Tralasciamo le fasi iniziali del moto essendo già note, per riportare una<br />

considerazione fatta dalla comitiva: «Non si faceva la rivoluzione al grido di Pio Nono? E se si domandava<br />

ad un vescovo, e fosse stato pure un monsignor Pirrone, a nome del papa di far evitare la effusione del<br />

sangue e far accogliere da fratelli le schiere de’ loro concittadini e fratelli, (...) si doveva tirare difilato a<br />

Geraci, entrarvi per amore o per forza, anche dopo le notizie pervenute che tra que’ del Borgo Maggiore si<br />

era apparecchiati ad alzare la bandiera di Pio Nono» 251 .<br />

L’impresa fallì. Ai “collaboratori” fu assegnata la croce di Francesco I. Giacomo Scaglione deviò «il<br />

poeta da quella croce cavalleresca (in quel punto chi ne fosse stato fregiato avrebbe voluto essere cento metri<br />

sotterra)» 252 . Sulla veridicità della lettera inviata da Giuseppe Mazzone Tomajoli rispose: «La lettera forse vi<br />

fu, e la notizia dello arrivo dei legni da guerra per bombardare Roccella fu data a don Giuseppe, e fu da lui<br />

creduta e scritta al figlio. Se ne contavano tante in que’ momenti di terrore!...» 253 .<br />

Dopo gli arresti, «il procedimento fu brevissimo (...); la sentenza era già stata stabilita e (...) come<br />

colpevoli di lesa maestà, furono condannati alla pena di morte» 254 . Ad una domanda sull’argomento della<br />

grazia posta dal poeta Tomajoli, uno dei presenti rispose che, se fossero stati dei volgari assassini, probabilmente la<br />

pena sarebbe stata condonata.<br />

Quando la comitiva risalì la lunga strada che porta nella parte alta di Gerace, Calenda udì Colloridi,<br />

Giacomo Scaglione e il canonico Capogreco parlare sulla veridicità del presunto banchetto organizzato la<br />

sera del 2 ottobre 1847 tra il generale Nunziante, il vescovo Perrone ed alcuni notabili di Gerace, durante il<br />

quale il Vescovo, come è noto, avrebbe incoraggiato il Nunziante 255 . Sull’asserzione si era accesa una<br />

discussione. L’attacco contro il Perrone raggiunse toni aspri da parte del Tomajoli che lo accusò di aver<br />

minacciato e intimorito preti e persone di Gerace a “difendersi” «contro le bande scomunicate di<br />

malfattori» 256 . Anzi, il poeta si spinse a dire che se non fosse stato per questo stato di cose creato dal<br />

Vescovo, forse gli avvenimenti avrebbero preso un’altra piega.<br />

Calenda ritrovò fra le sue carte il proclama, un documento di grande spessore politico-sociale, con il<br />

quale Verduci e Bello da Bianco «promettevano miglior governo al popolo sollevato» 257 .<br />

Nella descrizione dei personaggi proposti dalla memoria del Calenda, un posto non secondario viene<br />

attribuito al tenente Romoli, persona flessibile nei confronti degli attendibili. L’ufficiale apparteneva al 10°<br />

Reggimento battutosi a Venezia nel ‘48 contro gli austriaci e si trovava a Gerace, come vedremo, più per<br />

necessità che per virtù di fare il gendarme. Romoli, in uno dei suoi soliti rapporti giornalieri, informò il<br />

Calenda dell’arrivo di quel famoso cavaliere Domenico Jeraci Cerchiara da Campoli, tra l’altro amico intimo<br />

del cavaliere X, per rendergli omaggio. La considerazione che Calenda ha di questa figura, nella sfarzosa<br />

divisa malamente portata, è tra le più dissacranti: «All’immagine d’un capraro, d’un bifolco che per danaro e<br />

per malvagità d’animo tradisce e tira per mano a morire quattro giovani signori che chiedono ospitalità (...)<br />

in mente mia si era formata la figura d’un mezzo brigante, (...) arrogante come può diventare un villano di<br />

botto rifatto e creato cavaliere» 258 . Dopo qualche ora di lusinghe da parte del Jeraci che considerava il<br />

Calenda una specie di re, il Sottintendente si alzò di scatto per cercare di dare fine a quella interminabile<br />

sopportazione, accennando qualche passo zoppicante. L’atteggiamento claudicante, disse Calenda al capurbano,<br />

era dovuto agli stivali troppo stretti che andavano tirati. Il Jeraci si offrì volontario: «Già si chinava ...<br />

non ruppi a ridere no.... ma provai un altro sentimento: cioè che lo zotico seccatore era quel miserabile che<br />

nel 1847: Embè, cavalie’, tirami sti stivali» 259 .<br />

La piccola vendetta fece subito il giro del paese. Era un’azione che il Cavaliere X non avrebbe<br />

digerito poiché il Calenda aveva oltraggiato tutti i cavalieri di Francesco Primo. L’atto, definito da Colloridi

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