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cospirazioni, economia e società - biblioteca telematica

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avrebbe tentato un colloquio segreto con Ruffo finito poi, però, in una diatriba 277 e un ufficiale «ripeté a<br />

Bello, e questi ai compagni, le promesse del generale, ma ne ricevette un concorde perentorio rifiuto» 278 .<br />

Rosaroll e Balzano, forse perché si sentivano il marchio di sospetti liberaleggianti, vollero dimostrasi<br />

inusualmente zelanti nel portare avanti le fasi del processo. Il Rosaroll sputò sopra la bandiera, capo d’accusa<br />

principale, per la quale i sette si erano alzati per onorarla 279 . Balzano, invece, finse, probabilmente per<br />

allontanare il sospetto sulle sue simpatie, di non riconoscere i colori della bandiera italiana chiamando il<br />

verde cilestre; alterando la descrizione della bandiera repertata, evidentemente per allontanare i sospetti delle<br />

sue simpatie liberali. Infatti, riporta nel verbale del processo che nelle due parti vi era scritto Pio Nono<br />

Italia 280 .<br />

Gli imputati, difesi dagli avvocati Francesco Cesare di Gerace e Gaetano Gallucci di Mammola, alle<br />

domande dei giudici risposero con dignità riconoscendo le firme apposte sulle ordinanze e sulle ricevute. A<br />

deporre vennero chiamati anche il tenente Gargea e il Sottintendente, in prima persona coinvolti nei fatti e le<br />

cui testimonianze potevano difettare di serenità. Il Tenente espresse il suo disappunto nei confronti del giudice<br />

istruttore Balzano, reo secondo lui di appropinquarsi ad addolcire la sentenza dei sette. Il Bonafede additò<br />

in Gemelli e Verduci i suoi principali oltraggiatori. Quest’ultimo durante la deposizione osservò che quando<br />

si gridavano gli evviva, anche il testimone si levava il berretto. Il Bonafede fece notare che «dalla sola<br />

diversità di principi potea nascer quell’accusa, giacché se la mia riverenza fosse nata la sincera connivenza,<br />

egli Capo della rivolta non me lo avrebbero addebitato a colpa» 281 . Allora il Verduci irritato replicò: «Buon<br />

per te che non foss’io il capo supremo altrimenti a quest’ora non avresti più la testa su le spalle» 282 .<br />

La sentenza, emessa a mezzanotte, fu lapidaria: i sette «imputati di lesa maestà tutti per aver<br />

commesso atti prossimi alla esecuzione di detto misfatto» 283 ebbero la condanna a morte per mezzo della<br />

fucilazione. «Considerando che il nostro codice penale ha distinti in questi due reati due modi di esecuzione<br />

cioè: l’attentato e la cospirazione, e che definisce esser il primo un atto prossimo alla esecuzione, e l’altro<br />

quel momento nel quale i mezzi di agire sono stati concertati e conchiusi fra due o più individui» 284 , in<br />

riferimento al reato cardine finale, cioè a quello di lesa maestà la condanna non poteva che essere la<br />

massima. Ma in quale situazione era applicabile il reato di lesa maestà? Gli artt. 123, 124 della legge penale<br />

borbonica prevedevano per il primo: «È misfatto di lesa Maestà e punito colla morte, e col terzo grado di<br />

pubblico esempio, l’attentato, o la cospirazione che abbia per oggetto di distruggere o cambiare il Governo o<br />

di eccitare i sudditi, e gli abitanti del regno ad armarsi contro l’autorità Reale» 285 . E il secondo recitava:<br />

«L’attentato esiste nel momento che si è commesso, o cominciato un atto prossimo alla esecuzione di<br />

ciascuno dei misfatti contemplati negli articoli precedenti» 286 . I capi d’accusa corrispondevano pienamente<br />

alle leggi prese in riferimento. La fucilazione (tranne il caso Mazzone) in teoria era un atto legale.<br />

La Commissione, conformemente a quanto espresso anche dal P.M., dichiarava che il Mazzone<br />

«trovasi in potere della giustizia per effetto del legittimo arresto e non per spontanea presentazione 287 e ciò<br />

sulla maggioranza di quattro voti sopra due» 288 ; per cui non accordava il beneficio della presentazione<br />

all’unanimità: era necessario che uno dei giudici avesse votato a suo favore e con la parità dei suffragi si<br />

sarebbe salvata la vita al Mazzone. Fu dunque un delitto condannarlo, poiché nel dubbio si sarebbe potuto<br />

riflettere e aspettare quantomeno un segno dall’alto o applicare i dispacci ministeriali di cui Nunziante era a<br />

conoscenza. Ma la fretta ebbe il sopravvento sullo scrupolo. La sentenza che doveva esser eseguita entro le<br />

successive 24 ore, fu per tutti e sette di morte col terzo grado di pubblico esempio. Ciò implicava il viatico<br />

dei condannati a piedi nudi e ceppi ai piedi e le mani legate dal luogo della detenzione a quello<br />

dell’esecuzione, veste nera e benda agli occhi, in ginocchio. Alle ore 4 del 2 ottobre, il Nunziante<br />

riconvocava la Commissione militare con i poteri conferitigli dal Ministro, onde sospendere l’esecuzione per<br />

eventuali condannati di secondaria importanza. Ciò sarà fatto per Rosetti e Gemelli che subiranno 30 anni di<br />

ferri.<br />

Il Commissario del re Francesco Pomar insistette affinché la sentenza fosse eseguita entro le 24 ore,<br />

prima del tramonto 289 . Il Generale, quindi, dispose per l’esecuzione «un battaglione composto da quattro<br />

divisioni del 6°, e due dell’8° di linea (...). Il sito ove avrà luogo la detta esecuzione chiamasi il Baglio» 290 .<br />

La truppa indossava una «tenuta bigia con casco scoverto. Gli Uffiziali in uniforme, pantalone bigio e<br />

caschetto scoverto» 291 . Il Nunziante incaricava il comandante di piazza Pietro Siniscalco dell’esecuzione di<br />

quanto ordinato 292 .<br />

Il responso venne notificato in carcere dal cancelliere Emanuele Paresce alle 7 del mattino. I cinque<br />

ascoltarono la sentenza imperturbabili. Il Bello caricava impassibilmente l’orologio. Alle 14 di quel<br />

piovigginoso 2 ottobre, i carcerati furono condotti nella chiesa di S. Francesco dove furono confessati: a<br />

Bello si avvicinò il canonico Bova, a Mazzone il teologo Vincenzo Jerace, a Ruffo Domenico Frascà, a<br />

Verduci Domenico Antonio De Mujà, a Salvadori il canonico Giovanni Sculli. I giovani avevano le mani

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