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Journal of Italian Translation

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Franco Buffoni<br />

della lingua, ma anche verso il passato se si tiene conto degli avantesti. Lo<br />

dimostra molto bene Lorenzo De Carli nel saggio Proust. Dall’avantesto alla<br />

traduzione 11 , mettendo a confronto le varie traduzioni italiane della Recherche<br />

(Raboni, Ginzburg, Mucci, Schacherl, Nessi Somaini, Pinto). Ebbene,<br />

dall’analisi testuale appare evidente come i traduttori che hanno potuto (e<br />

voluto) accedere anche all’avantesto (nel caso di Proust, ovviamente, i<br />

Cahiers), avendo colto il percorso di crescita, di germinazione, subito da<br />

quel particolare passaggio proustiano, siano poi stati in grado di renderlo<br />

con maggiore consapevolezza critica ed estetica. Ma si pensi agli ottantamila<br />

foglietti da cui provengono le quattrocento pagine del Voyage au bout de la<br />

nuit di Céline, alle Epifanie da cui discende il Portrait di Joyce, ecc. Il tutto,<br />

concettualmente, nella piena consapevolezza della stratificazione delle<br />

lingue storiche.<br />

Malgrado la loro solidità e malgrado circolino da vent’anni<br />

nell’Europa delle intelligenze sarebbe un errore ritenere che le posizioni<br />

teoriche anziesposte siano ormai acquisite, visto che Umberto Eco, nel suo<br />

recentissimo Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (ed. Bompiani),<br />

contrappone con sicurezza “il fatto, acclarato, che le traduzioni invecchiano”<br />

all’inglese di Shakespeare, che “rimane sempre lo stesso” 12 .<br />

Perché riteniamo inadeguati gli strumenti della linguistica teorica se<br />

applicati alla traduzione letteraria? Perché essi possono funzionare<br />

traducendo da un esperanto ad un altro esperanto; appunto, da una lingua<br />

di partenza a una lingua di arrivo, attraverso un processo di decodificazione<br />

e quindi di ricodificazione. Mentre per tradurre dalla ex lingua di Chaucer<br />

e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e di Tasso occorrono altri<br />

strumenti ben più s<strong>of</strong>isticati ed empirici. Un concetto - quest’ultimo - che<br />

Luciano Bianciardi esemplifica con “architettonico” didatticismo all’inizio<br />

della Vita agra, allorché descrive il palazzo della biblioteca di Grosseto.<br />

Che in precedenza era stata casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima<br />

ancora prepositura degli Umiliati, e alle origini Braida del Guercio... 13<br />

Trasferendo al linguaggio questa descrizione si ottiene l’effetto-diodo,<br />

come osservando dall’alto una pila accatastata ma trasparente di strati<br />

fonetici e semantici.<br />

*<br />

Operativamente, al fine di sfuggire all’impasse delle dicotomie, è forse<br />

possibile suggerire una riflessione capace di coniugare cinque concetti,<br />

aggiungendo a quelli già considerati di avantesto e di movimento del<br />

linguaggio nel tempo i concetti di poetica, di ritmo e di intertestualità. (Anche<br />

se la proposta teorica intertestuale, per alcuni aspetti, potrebbe farsi risalire<br />

al concetto classico di imitatio o di mimesis, che a sua volta oscillava tra<br />

conformatio e commutatio: e quindi saremmo ancora in ambito dicotomico).<br />

Il termine intertestualità appare per la prima volta nel 1966 in un<br />

saggio di Julia Kristeva, poi ripubblicato nel 1969 su “Tel Quel”. Secondo<br />

la definizione della Kristeva: “Ogni testo si costruisce come un mosaico di<br />

13

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