La Spada che canta

«Spostati!» Ubbidii e una settima freccia andò a colpire il centro
esatto del cerchio formato dalle altre sei.
«Adesso, arrogante zotico latino, guarda la mia stupenda arma e
meravigliati!»
Sentii i suoi passi avvicinarsi e mi girai per guardarlo in faccia. I
grandi denti splendevano in un sogghigno malizioso e quando fu
abbastanza vicino mi lanciò il suo arco. Lo afferrai con la mano
destra. Era enorme: sei piedi o più di lunghezza, con una corda di
nervo di bue, ma era stato ricavato da un unico pezzo di legno, non
era fatto a strati, come il mio, che era di legno, corno e nervo di bue.
Aveva una sezione circolare; al centro, dove lo impugnavo, mi
riempiva il palmo della mano, e diminuiva gradatamente alle
estremità. Lo sollevai e sentii che era solido. Lo passai nella sinistra e
provai la tensione. Era forte, forte come il mio.
Ullic si fermò a guardarmi e non si mosse finché non ebbi teso
l'arco lasciandolo poi andare con garbo. Allora allungò una mano
verso la faretra che aveva sulla schiena e mi porse una freccia. La
incoccai, mirai a un bersaglio e lasciai andare. Era una bella arma.
«Allora?» C'era un leggero sorriso sulla sua faccia.
«Niente male.» Tenni la testa bassa esaminando il grande arco,
cercando di non mostrare troppa ammirazione. «Dove lo hai
rubato?»
«Peuh! Un re celta non ha bisogno di rubare. Il suo popolo fa a
gara per portargli dei doni.»
«Chi ha fatto a gara per portarti questo?» Rialzai il capo e gli
rilanciai l'arco, sorridendogli adesso in segno di benvenuto. «Hai già
mangiato?»
«Come avrei potuto? Sono in cammino da tre giorni. Sono
venuto per impressionarti con il mio nuovo giocattolo. Ma potrei
anche mangiare, se mi venisse offerta ospitalità. Perfino ospitalità
romana.»