La Spada che canta

Più tardi, dopo il pasto di mezzogiorno, ci incontrammo come
d'accordo e scendemmo insieme a cavallo verso la villa, io, Caio,
Pico, Ullic, Uric ed Equo. Pico e io fummo i primi a essere pronti, e
mentre aspettavamo che gli altri ci raggiungessero, Pico mi prese in
giro perché avevo bevuto troppo la sera prima, dicendo che mi ero
perso la parte più interessante della giornata. Sorrisi tra me
immaginando la sua espressione se gli avessi detto cosa avevo visto
e sentito sul fianco della collina. Ovviamente non dissi nulla e gli
altri ci raggiunsero presto, interrompendo le sue canzonature.
Quando arrivammo alla villa li condussi oltre la casa,
direttamente alla forgia, un cambiamento che provocò alcune
proteste, perché avevamo parlato di aprire un'anforetta di vino
appena arrivati. L'interno della fucina era buio, e i fuochi spenti.
Aprimmo le porte sul davanti e sul retro della forgia e aprimmo
anche gli scuri della finestra, per lasciare entrare il chiaro sole
primaverile con tanta abbondanza da inondare di luce anche gli
angoli più bui.
Pico si appollaiò sul bordo di un bancone, dopo averlo
spolverato. Ullic si appoggiò a un pilastro, noncurante della
sporcizia, schioccando le labbra e schiarendosi quella che avrebbe
dovuto chiaramente sembrare una gola secca, in una dimostrazione
muta e sputacchiarne. Il giovane Uric era in piedi vicino a suo padre,
e non parlava. Aveva detto sì e no sei parole da quando avevamo
lasciato il forte, perché questa era la sua prima uscita da uomo tra gli
uomini. Era stato deriso senza pietà da tutti, me compreso, e non era
sposato da abbastanza tempo per avere acquisito la disinvoltura
necessaria a tenere testa senza imbarazzo a simili canzonature. E
questo, ovviamente, ci forniva altro combustibile per il fuoco su cui
lo facevamo arrostire.
Mi sedetti su uno sgabello a tre gambe e feci cenno a Equo, che si
diresse verso un cassone nel retro della forgia e ne tirò fuori un
lungo pacco, avvolto nella stoffa.