La Spada che canta

Vidi lo sguardo di Pico, e sentii un mezzo sorriso affiorarmi in
volto ascoltando la critica paterna, precisa anche se mite, all'adorato
figlio. Pico, comunque, non badava a me. Con espressione tesa e
pensosa fissò a lungo il fuoco del braciere, prima di parlare di
nuovo.
«Non sarà facile organizzare una guarnigione permanente di
cavalleria, o fornirla di un comando autosufficiente da potermi
lasciare alle spalle. C'è troppo risentimento nel comando delle
truppe regolari.»
«Perché?» Caio soppesava la frase del figlio, fissandolo mentre il
giovane ci sottoponeva i problemi che doveva affrontare.
«Sono gelosi, suppongo» sbottò Pico alla fine. Questa
affermazione fu accompagnata da un'altra scrollata di spalle.
«Secondo il loro punto di vista, dopo quattrocento anni di
occupazione romana in Britannia, la loro autorità viene ora usurpata
da un corpo elitario, improvvisamente importante, al comando di
un gruppo di ufficiali la maggior parte dei quali non ha ancora
venticinque anni.»
«Dannazione,» intervenni io, «ma è sempre stato così. Tutti i
soldati brillanti della storia sono stati dei lattanti in armi!»
Mi guardò, notando la mia presenza, mi parve, come avrebbe
potuto notare una vespa di passaggio. «Sì, ma combattevano a piedi,
Varro.»
Caio lo interruppe. «Non è un argomento valido, figliolo.
Proprio alla fine di quattrocento anni di occupazione il genio
militare romano ha ideato un nuovo modo per restaurare la
supremazia romana. Sicuramente i comandanti delle armate
saranno in grado di vederlo, non credi?»
Pico girò a metà la mano, un gesto abbozzato per indicare che il
suggerimento di suo padre era solo in parte convincente. «Forse
possono, padre, ma questo non significa che ne siano contenti.»