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GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE

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un’occasione per sentirsi raccontare delle cose su un certo preciso<br />

numero di argomenti (la costruzione della trama, la formazione del<br />

personaggio, la contestualizzazione, il punto di vista, il trattamento<br />

del dialogo…), per scrivere qualche pagina su un tema dato e/o con<br />

delle forme date, per leggere o dare in lettura dei propri testi e sentire<br />

l’opinione del docente.<br />

Io stesso ho fatte di queste cose: che vanno benissimo, sono utili,<br />

servono. Però, in tutta sincerità, mi hanno stufato. Sulla costruzione<br />

della trama ci sono dei bellissimi libri, per capire come si fa un buon<br />

dialogo <strong>non</strong> c’è niente di meglio che leggere attentamente un dialogo<br />

che ci sembri buono, il punto di vista è una questione quasi sempre<br />

(<strong>non</strong> so perché) enfatizzata ma difatto banale, la contestualizzazione<br />

è una cosa che o uno capisce che è fondamentale (e allora se<br />

la sa cavare da solo) o <strong>non</strong> vuol capire che è fondamentale (e allora<br />

collocherà le sue storie, come tanti fanno, in contesti vaghi, indefiniti<br />

o standard); eccetera. Scrivere su un tema dato <strong>non</strong> è una cosa di<br />

per sé particolarmente interessante (tranne in un caso, e ne parlo<br />

poi), scrivere in una forma data è puro e semplice esercizio («Vi<br />

spiegherò il madrigale, dopodiché scriveremo tutti dei madrigali…»).<br />

Discutere i testi è, sì, una cosa interessante; per me, che avrò discusso<br />

migliaia di racconti o poesie o tentativi di romanzo, resta una cosa<br />

interessante. Ma in un laboratorio si producono esercizi; e discutere<br />

gli esercizi <strong>non</strong> è, secondo me, particolarmente interessante. Un<br />

esercizio al massimo si corregge: «Sì, il tuo madrigale è venuto bene;<br />

no, <strong>non</strong> hai fatte le rime giuste», eccetera.<br />

Dicevo, che c’è un caso in cui mi sembra interessante scrivere su<br />

un tema dato. Il caso è questo: quando le indicazioni del docente<br />

siano estremamente costrittive. Mi sarà sicuramente capitato di dire<br />

- in qualcuna di queste chiacchierate che ormai <strong>non</strong> fanno più nessun<br />

tentativo di farsi passare per un corso di scrittura a puntate - mi<br />

sarà sicuramente capitato di dire che le costrizioni aguzzano<br />

l’ingegno e stimolano l’invenzione. Tra dire: «Ora scriveremo un<br />

racconto sul tema: Cose che succedono mentre si fa la spesa al supermercato»,<br />

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e fare tutto l’ambaradam che ho raccontato nella precedente<br />

puntata, la differenza è tutta qui: nel grado di costrizione.<br />

Quando arrivo a dire: «Provate a scrivere dei pensieri fatti dalle<br />

merci. Ipotizzando che la lingua a disposizione delle merci sia<br />

composta sostanzialmente dalle parole che gli uomini hanno<br />

scritte sopra le merci stesse», so benissimo che sto imponendo<br />

un esercizio impossibile da eseguire o, se preferite, un esercizio<br />

che può essere eseguito solo in maniera fallimentare. E infatti<br />

ho detto, lì a Bolzano, come sempre dico: «Scrivere un esercizio<br />

che sia anche una cosa bella, è impossibile». A me interessa che le<br />

persone ci provino. Che ci diano dentro. Che arrivino al punto<br />

di fare cose che mai avrebbero fatto, pur di venire a capo<br />

dell’esercizio, pur di potermi dire: «Ecco, tu hai cercato di fregarmi<br />

con un esercizio impossibile, ma io l’ho fatto lo stesso».<br />

Ma c’è un’altra cosa che riesce a rendere interessante un esercizio<br />

di scrittura, ed è l’azzeccare un tema che imponga di rifocalizzare<br />

qualcosa che appartiene all’esperienza comune: un tema,<br />

in altre parole, che spinga, che forzi a gettare su cose che<br />

sempre guardiamo uno sguardo nuovo. Spesso, ad esempio,<br />

comincio un laboratorio con degli esercizi che chiamo «di<br />

sgranchimento» ma che sono, ahimè, dei veri esercizi di provocazione.<br />

Dico: «Prendete carta e penna. Tema: La mia mamma».<br />

Tutti sghignazzano. Io sto serio, finché qualcuno <strong>non</strong> mi domanda:<br />

«Va bene, apprezziamo lo scherzo, ma qual è il vero titolo<br />

dell’esercizio?»; e io ribadisco: «Tema: La mia mamma». Al<br />

quale seguono altri temi dello stesso genere quali: «Il mio compagno<br />

di banco», «La strada nella quale abito», «Una giornata<br />

piacevole», «Le mie feci».<br />

«Alt!», dirà qualcuno. «"Le mie feci" <strong>non</strong> è un tema dello stesso<br />

genere».<br />

Non è vero. È proprio un tema dello stesso genere. O quantomeno,<br />

produce un effetto del genere: mette in imbarazzo.<br />

Costringe ad addentrarsi nel territorio dell’ovvio (in quello che

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