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GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE

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che cosa può essere accaduto prima (anche nel racconto vero, nulla si<br />

sa della storia precedente dei due amanti; il racconto si limita a mettere<br />

in scena la discussione e la separazione). E allora si vede bene<br />

che cosa aggiungono, al nudo dialogo, le altre parti del testo: aggiungono<br />

qualche scorcio sull’interiorità dei personaggi, ma soprattutto<br />

gesti, movimenti, allontanamenti e avvicinamenti, contatti dii<br />

corpi solo immaginati, proposti, accettati o rifiutati.<br />

Volendo, si potrebbe ridurre il racconto quasi ai soli gesti, alle cose<br />

visibili. Provate a farlo con il frammento che ho riportato sopra. Vi<br />

accorgerete che la relazione tra i personaggi resta perfettamente<br />

comprensibile, anche se è un po’ più arduo capire esattamente che<br />

cosa stia succedendo.<br />

A che pro questo bizzarro esercizio di smembramento d’un racconto?<br />

Semplicemente per far vedere come in un racconto il dialogo<br />

e la narrazione vera e propria si intreccino, si sovrappongano, esistano<br />

quasi autonomamente l’uno dall’altro, e tuttavia cooperino efficientemente<br />

a uno stesso scopo: trasportare nella mente del lettore<br />

<strong>non</strong> solo la storia immaginata dal narratore, ma tutta la sua immaginazione,<br />

comprensiva delle parole dette, dei movimenti dei corpi, e financo<br />

l’interiorità dei personaggi (che è, però, la parte meno autonoma<br />

del testo).<br />

Per scrivere un buon dialogo, quindi, bisogna soprattutto immaginare<br />

gli spazi dell’azione, e il movimento dei personaggi in questi<br />

spazi. Ne parliamo la prossima settimana.<br />

Chiacchierata numero 59<br />

Saluti a tutti. Dicevo la settimana scorsa: per scrivere un buon<br />

dialogo bisogna immaginare gli spazi dell’azione, e il movimento dei<br />

personaggi in questi spazi.<br />

Questo è un punto chiave.<br />

94<br />

Nel momento in cui si pensa al dialogo, è bene immaginare la<br />

narrazione come una messa in scena. Avete mai visto un film o<br />

una pièce teatrale in cui gli attori stiano sempre fermi? No. (Be’,<br />

se vi piace Beckett, forse sì; ma Beckett <strong>non</strong> fa testo). Gli attori<br />

si muovono nello spazio della scena, il regista muove la macchina<br />

da presa: mentre il dialogo avviene, tutto è in movimento.<br />

Ma a che cosa serve tutto questo movimento? «A rendere più<br />

espressivo il dialogo», si potrebbe dire. Ma <strong>non</strong> è così. Il dialogo<br />

ideale è un dialogo che sta in piedi da solo; è addirittura quel<br />

dialogo che, pur privato di tutto il contorno di inquadrature e<br />

movimenti (come facevo la settimana scorsa bistrattando un<br />

racconto di Federigo Tozzi), e ridotto alla sola parte imitativa,<br />

sta in piedi da solo: e <strong>non</strong> ha bisogno di gesti che lo rendano più<br />

espressivo.<br />

E allora?<br />

Allora, si può dire che i movimenti e le inquadrature servono<br />

più che altro a far passare il tempo. E il modo migliore di far<br />

passare il tempo, tenendo conto che avete lì un lettore che vi<br />

legge, è di dargli qualcosa da guardare. Un gesto, un movimento,<br />

uno sguardo fuori dalla finestra, una smorfia.<br />

Un frammento da un racconto di Raymond Carver, «Di cosa<br />

parliamo quando parliamo d’amore» (dal libro omonimo; questa<br />

è la traduzione di Livia Manera, ed. Garzanti):<br />

«E allora la vecchia coppia?», disse Laura. «Non hai finito la storia che<br />

avevi cominciato».<br />

Laura faceva una gran fatica ad accendersi la sigaretta. Le si spegnevano<br />

continuamente i fiammiferi.<br />

Ora nella stanza la luce era diversa, stava cambiando, diventava più tenue.<br />

Ma le foglie fuori dalla finestra luccicavano ancora, e io contemplai le<br />

forme che disegnavano sui vetri e sul ripiano di formica. Non erano gli stessi<br />

disegni, naturalmente.<br />

«E allora, la vecchia coppia?», dissi.

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