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GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE

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«Ma sì», continuava quello, «esporre idee, sentimenti, problemi, rivolgersi<br />

con affetto a qualcun altro, descrivere la propria vita vissuta!…<br />

Non è mica questo, la letteratura».<br />

«E che cos’è, allora?», dicevo io.<br />

«La letteratura è… è…», la risposta magari <strong>non</strong> arrivava subito. Ma<br />

arrivava comunque presto, ed era sempre quella. «La letteratura è<br />

creazione, ecco! Ed esprime dei valori universali, in cui tutti si riconoscono!».<br />

A quel punto, domandavo quali fossero i valori universali. E veniva<br />

fuori: l’amore, l’amicizia, l’onestà, il coraggio, la purezza… E io<br />

allora di nuovo tiravo fuori l’elenco degli scrittori mentecatti e farabutti,<br />

e di nuovo si ricominciava a litigare…<br />

Perché, dunque, Vittorio Bianchi <strong>non</strong> riusciva a essere accettato<br />

come autore, scrittore? Secondo me, perché a Vittorio Bianchi,<br />

ospite del Ctrp di Padova, vivo e vegeto, vicino, talvolta presente a<br />

quegli incontri, risultava inapplicabile un equivoco. Quell’equivoco<br />

grazie al quale si concepisce l’autore, lo scrittore, come un essere distante,<br />

«antropologicamente diverso dal resto dell’umanità» (come<br />

direbbe l’attuale presidente del Consiglio dei ministri), più alto della<br />

media, circonfuso di luce, con i riccioli naturali eccetera.<br />

Equivoco che è ben radicato nel popolo dei lettori, e che molti<br />

autori ben volentieri coltivano. Equivoco che davvero, a volte, mi<br />

sembra più forte della realtà. Basta che pensi a quante sono le persone<br />

che si stupiscono che i cosiddetti scrittori abbiano un lavoro,<br />

un mutuo da pagare, la spesa da fare al Billa, dei problemi di prostata,<br />

dei figli che danno da pensare, e così via.<br />

Lo scrittore pazzo, criminale, o umanamente disgustoso, <strong>non</strong> scalfisce<br />

questo equivoco se è sufficientemente distante: se è morto da<br />

tempo, se abita a New York, se è ricchissimo di famiglia, se va nella<br />

prima pagina di Gente e così via. Allora, grazie alla distanza (umana,<br />

sociale ecc.) viene percepito come uno che fa certe cose perché è un artista,<br />

e ovviamente agli artisti si perdona tutto.<br />

82<br />

Il povero Vittorio Bianchi, invece, <strong>non</strong> ha speranza. Poiché lui<br />

è lì, è visibile, è ospitato in quel determinato Ctrp, poiché ha in<br />

somma una sua concretezza inequivocabile, <strong>non</strong> potrà mai diventare<br />

uno che fa certe cose perché è un artista. È, e continuerà<br />

a essere, un povero malato di mente. Quindi <strong>non</strong> gli si perdona<br />

niente: e anche il suo scrivere, il suo rivolgersi ad altri (la<br />

letteratura <strong>non</strong> è altro che questo: rivolgersi ad altri, <strong>non</strong> a me<br />

stesso ma ad altri) viene catalogato come pura e semplice curiosità,<br />

un lusus naturae. E lui <strong>non</strong> è uno scrittore, bensì un caso umano.<br />

L’altro discorso sospeso, lo ripiglio settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 52<br />

Buongiorno. Il tema è ancora: avventure e disavventure<br />

dell’autore. Un paio di settimane fa riferivo brevemente di un<br />

articolo polemico («Ho le vertigini da fiction») pubblicato da<br />

Mauro Covacich nel settimanale L’Espresso (nel numero che è in<br />

edicola da venerdì scorso trovate una bella risposta di Carla Benedetti,<br />

eccellente critica letteraria); raccontavo di averlo sunteggiato<br />

e commentato nel mio diario in rete (il cui indirizzo è:<br />

http://giuliomozzi.clarence.com; ma credo che cambierà prossimamente,<br />

a causa di disastri informatici <strong>non</strong> miei ma del portale<br />

Clarence, che <strong>non</strong> sto qui a contarvi); e infine riportavo alcune<br />

reazioni di lettori.<br />

Il pezzo di Covacich diceva in sostanza: Nel nostro tempo<br />

succede di tutto, sconvolgimenti sociali ed economici e politici,<br />

eppure pare che «gli scrittori italiani si sottraggono a tutto ciò».<br />

E domandava Covacich: «Perché lo ignorano mentre raccontano<br />

le loro storie? […] Perché <strong>non</strong> riusciamo a prendere il mondo<br />

per le corna? Perché <strong>non</strong> riusciamo a raccontare storie - <strong>non</strong>

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