GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE
GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE
GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE
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noi; ed ecco, cos’altro possiamo fare se <strong>non</strong> mangiare insieme? E se<br />
<strong>non</strong> c’è niente da mangiare, <strong>non</strong> ha importanza: può essere più che<br />
sufficiente mimare un pasto insieme, mettere insieme qualcosa che<br />
potrebbe sembrare una tovaglia con qualcosa che potrebbe sembrare<br />
un piatto, sedersi uno vicino all’altro. Non è importante l’evento<br />
reale (che si mangi), è importante l’evento simbolico (siamo insieme<br />
per mangiare, per ricordare quando si mangiava, per profetizzare<br />
che mangeremo ecc.). Così i nostri personaggi diventavano quattro<br />
Antigoni a picnic: perché Antigone è colei che difende, anche a costo<br />
della vita, contro la realpolitik dello zio Creonte, il diritto di agire<br />
sempre e comunque secondo il volere degli dèi: anche se gli dèi, nel<br />
tempo della realpolitik, sono diventati irreali.<br />
La preparazione del picnic è diventata quindi il primo tentativo dei<br />
nostri quattro personaggi di evocare un mito, uno “stare insieme”<br />
antico (e magari iniziale) sul quale costruire.<br />
Naturalmente il tentativo fallisce: perché uno dei personaggi, la<br />
donna sotterrata, fa saltare tutto. Stiamo solo facendo finta, dice agli<br />
altri. Non è importante, le rispondono. E invece sì, dice lei, ciò che<br />
stiamo facendo <strong>non</strong> è reale. E insiste tanto, da disilludere anche gli<br />
altri.<br />
La seconda “azione mitica”, dopo il fallimento del picnic,<br />
l’abbiamo trovata nel dare i nomi alle cose (ciò che fece Adamo subito<br />
dopo essere stato creato). Lo sposo, sobillato dall’uomo appeso,<br />
crede di individuare nella donna sotterrata colei che può dargli<br />
l’autorità di dare il nome alle cose; la donna prima si rifiuta, poi alla<br />
fine (solo per levarsi di torno quel rompiballe di uno sposo) gli dà<br />
un nome derisorio, lo chiama appunto “Adamo”; lo sposo <strong>non</strong> percepisce<br />
la derisione, è tutto fiero del suo nome nuovo, si gonfia come<br />
un pavone, e istantaneamente battezza “Eva” la donna sotterrata;<br />
la quale, ovviamente, <strong>non</strong> gradisce affatto…<br />
Così, un po’ alla volta, abbiamo ideate le scene dello spettacolo.<br />
Ma del resto vi racconto tra una settimana.<br />
113<br />
Chiacchierata numero 71<br />
L’apprendista teatrante, 3. Con oggi finisco, spero, di raccontarvi<br />
questa mia breve avventura teatrale. A un certo punto avevamo,<br />
dunque: la storia (una storia piuttosto esile, trattandosi sostanzialmente<br />
d’un dramma allegorico), le scene, i raccordi tra le<br />
scene, più o meno tutto il testo. E c’erano lo spazio (un palco<br />
all’aperto, inclinato verso il pubblico, con sei buchi dai quali<br />
poteva andare e venire la donna sotterrata, e un arco metallico<br />
dal quale poteva andare e venire l’uomo appeso), le due attrici, i<br />
due attori.<br />
A quel punto, io sono entrato nel panico. Perché ho dovuta<br />
affrontare, di colpo, la grande differenza tra la pagina e la scena.<br />
Una volta ho scritto un racconto di venticinque pagine in cui<br />
da pagina uno a quattro raccontavo cose che avvenivano, al<br />
presente, in un tempo di circa sei minuti; da cinque a dodici<br />
raccontavo cose avvenute in un tempo precedente, nell’arco di<br />
circa undici anni; da tredici a sedici raccontavo cose che avveniva,<br />
al presente, in circa due ore; da diciassette a ventiquattro<br />
raccontavo cose avvenute in un tempo precedente, nell’arco di<br />
circa venticinque anni; nelll’ultima pagina raccontavo, al presente,<br />
cose avvenute in circa dieci minuti.<br />
Quanto si racconta sulla pagina, si fa sempre così. Il tempo è<br />
elastico, malleabile, disponibile a tutto. Si può andare avanti,<br />
andare indietro, ripetere, allungare, accorciare, manipolare, falsificare:<br />
si può fare tutto. C’è chi sostiene, addirittura, che<br />
l’invenzione del romanzo coincida, più o meno, con<br />
l’invenzione di questa inesauribile elasticità del tempo.<br />
Bene: sulla scena, è tutto diverso. Non dico che si debbano rispettare<br />
le classiche unità di tempo e di luogo. Ma c’è poco da<br />
fare: un’ora di scena racconta un’ora di tempo. Sì, d’accordo, si<br />
possono inventare degli stacchi, si può fare questo e quello. Ma,<br />
per esempio, il tempo va sempre avanti. E, cosa ancor più stu-