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GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE

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Senso Al Mondo mettono Dio (o, piuttosto, la sua Presenza nel<br />

mondo e nella storia, ossia la Provvidenza). Solo che di Dio <strong>non</strong> si<br />

ha la stessa conoscenza che si può avere di una Legge di Natura.<br />

Tutt’altro. Dio <strong>non</strong> è nel mondo, è fuori dal mondo, e fa quello che<br />

vuole. Bisogna sempre ricordarsi di Giobbe. Dopo che il Diavolo,<br />

avendo avuta mano libera dal Signore, ha tolto tutto a Giobbe e gli<br />

ha fatti morire i figli e le mogli e i servi, Giobbe interroga il Signore:<br />

«Perché l’hai fatto, a me che sono un uomo giusto?»; e il Signore risponde:<br />

«Perché io sono il Signore, e faccio quello che voglio.<br />

Dov’eri tu, quando io creavo il cielo e la terra?». E Giobbe dice: «Mi<br />

scusi».<br />

Allora, quella cosa banale che si dice dei romanzi, che «creano un<br />

mondo», penso che si possa ridirla con un po’ di ricchezza in più: i<br />

romanzi inventano un mondo e, pur senza uscire da questo mondo,<br />

alludono, da dentro quel mondo, a qualcosa che c’è là fuori; e in questo<br />

dirigere i nostri occhi verso il là fuori c’è, forse, quella che si<br />

chiama «la verità della letteratura».<br />

Émile Zola <strong>non</strong> lo sapeva, che i suoi libri mi sarebbero serviti a<br />

imparare a guardare le cose. Io <strong>non</strong> ho più guardato il cibo come lo<br />

guardavo prima, dopo aver letto l’Assommoir. Credeva, Émile Zola<br />

che il là fuori che i suoi romanzi additavano fosse la Legge di Natura.<br />

Macché.<br />

Ma sapere tutto questo, a noi che vogliamo raccontare storie, a che<br />

cosa serve? Ne parliamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 43<br />

Buongiorno. Finivo il mio pezzo, la settimana scorsa, scrivendo:<br />

«Quella cosa banale che si dice dei romanzi, che creano un mondo,<br />

penso che si possa ridirla con un po’ di ricchezza in più: i romanzi<br />

inventano un mondo e, pur senza uscire da questo mondo, alludono,<br />

da dentro quel mondo, a qualcosa che c’è là fuori; e in questo di-<br />

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rigere i nostri occhi verso il là fuori c’è, forse, quella che si chiama<br />

la verità della letteratura» E buttavo là la domanda: «Ma sapere<br />

tutto questo, a noi che vogliamo raccontare storie, a che cosa<br />

serve?».<br />

Qualche mese fa ho tentato di scrivere un racconto in forma<br />

di lettera (mi piace molto la forma della lettera) di una figlia al<br />

padre. La figlia scrive al padre, rispondendo a una lettera che il<br />

padre le ha inviato e che lei <strong>non</strong> ha voluto leggere: <strong>non</strong> ha<br />

nemmeno aperta la busta. Il lettore <strong>non</strong> conosce, ovviamente, il<br />

contenuto della busta. Il funzionamento del racconto è chiaro:<br />

c’è una voce che parla (la figlia), rispondendo a un discorso (la<br />

lettera del padre) del quale noi <strong>non</strong> sapremo mai niente (la figlia<br />

sta scrivendo al padre, mica a noi). Al centro di tutto ci sarà<br />

sempre questa busta <strong>non</strong> aperta: <strong>non</strong> un "<strong>non</strong> detto", ma un<br />

"<strong>non</strong> letto".<br />

Non sono riuscito a finire il racconto. Ho scritte una dozzina<br />

di pagine senza riuscire a intravedere una conclusione. Tuttavia<br />

il testo, anche così com’è, mi intriga. Allora, qualche settimana<br />

fa, ho deciso di pubblicare la lettera, incompleta com’è, nel mio<br />

diario pubblico in rete<br />

(http://giuliomozzi.clarence.com/archive/040559.html).<br />

Dopo aver letto, un amico mi ha scritto: «Quello che mi ha<br />

insegnato il tuo racconto […] è che la prosa <strong>non</strong> può rappresentare<br />

le emozioni o le esperienze a nudo. Mi è parso chiaro<br />

che la letteratura si deve inoltrare in tutto quel territorio che sta<br />

nei dintorni della verità (nostra, che vogliamo rappresentare),<br />

ma <strong>non</strong> deve mai volgere lo sguardo verso il centro, verso la verità<br />

stessa. Se ne deve solamente percepire la presenza. La verità,<br />

intesa anche come insieme dei nostri sentimenti, <strong>non</strong> è inesprimibile,<br />

ma irrappresentabile agli altri. Ecco che la narrazione<br />

compie un’opera di finzione stando alla larga dall’immagine che<br />

noi abbiamo della verità, della nostra emotività, mette in campo

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