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GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE

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«Ma il ruolo sociale dello scrittore, allora, dov’è finito?», dice il giovane<br />

scrittore.<br />

Ho trovato un tavolino libero. Lo occupiamo baldanzosamente. La<br />

ragazza rumena arriva in trenta secondi. Tre Slalom medie, due<br />

bionde e una rossa. Sfoderiamo i pacchetti, accendiamo tre sigarette.<br />

«E allora?», sollecita il giovane scrittore.<br />

«Ma che cazzo di ruolo sociale vuoi avere!», sbotta il terzo amico.<br />

«Ma <strong>non</strong> vedi? Non vedi? Guàrdati attorno, accidenti!».<br />

Attorno c’è tutta un’umanità maschile in braghette corte che suda,<br />

fuma e beve birre; e tutta un’umanità femminile in pinocchietti e top<br />

che fuma, beve succhi Ace e apparentemente <strong>non</strong> suda.<br />

«Vuoi avere un ruolo sociale per questi qui?», dice il terzo amico.<br />

«Ma <strong>non</strong> lo so», dice il giovane scrittore. «Sto facendo delle domande».<br />

Troppo comodo, penso. Allora dico: «Ascolta. Un ruolo sociale,<br />

qualunque cosa sia e qualunque cosa tu intenda per ruolo sociale, è<br />

qualcosa che esiste e ha senso solo in relazione a un gruppo sociale<br />

ben definito. È chiaro?».<br />

«Sì», dice il giovane scrittore. Il terzo amico annuisce.<br />

«Rispetto a questo gruppo sociale tu dovresti essere, come io e lui<br />

dovremmo essere», continuo, «organico. Dovresti esser organico, ossia<br />

consapevolmente o inconsapevolmente, ma credo che sia meglio<br />

consapevolmente, portatore degli interessi (magari solo simbolici,<br />

eh!), dei desideri, dei sentimenti, dei conflitti di classe, eccetera di<br />

questo gruppo sociale. Dovresti essere, in somma, colui che sa dire<br />

ciò che gli altri sanno solo agire. È chiaro?».<br />

È chiaro.<br />

«Bene», dico. «Rispetto a quale gruppo sociale tu sei in questa posizione?».<br />

«Nessuno», dice il giovane scrittore, palesemente irritato, frantumando<br />

la sigaretta nel posacenere. «L’artista è libero per definizione».<br />

Arriva la ragazza rumena, scarica sul tavolino le tre birre.<br />

122<br />

Chiacchierata numero 76<br />

I mestieri dello scrittore, 5. «E, prima di fare lo scrittore, che cosa<br />

faceva?».<br />

Osservo la tipa. Avrà trent’anni, anche se io mi sbaglio sempre<br />

sull’età delle persone. Faccio un calcolo: mi ha già detto che si è<br />

laureata in letteratura inglese, che ha lavorato «un paio d’anni»<br />

per un’azienda di ceramiche, che ha preso al volo un corso della<br />

Regione Lombardia sulla comunicazione in rete, e che adesso è<br />

contentissima di lavorare nel web di questa grande azienda di<br />

filati e maglieria, dove le hanno appena rinnovato il contratto<br />

annuale. Sì, trent’anni ce li ha, ma <strong>non</strong> di più.<br />

«Ma», rispondo, «facevo quello che fanno tutti: lavoravo».<br />

«In che senso?», dice la tipa, sorridendo.<br />

Mi preparo. Seduti attorno alla tavola siamo in otto. C’è chi si<br />

conosce da tempo, ed è già avviato in conversazioni che io <strong>non</strong><br />

sono in grado né di capire né di seguire. C’è chi è seduto qui<br />

per me, perché pensa che cenare con me sia un’esperienza interessante<br />

(mah!), e tra chi è seduto qui per me c’è questa tipa<br />

che, evidentemente, vuole cavare dalla rapa (che sono io) tutto<br />

il sangue che si può.<br />

«Ho lavorato sette anni in un ufficio stampa», le dico. «E altri<br />

sette in una libreria scientifica».<br />

«L’ufficio stampa di una casa editrice?».<br />

«No, di un’associazione sindacale datoriale».<br />

La parola «datoriale» divide il mondo in due: chi la sa, e chi<br />

<strong>non</strong> la sa.<br />

La tipa, che continua a sorridere, è vagamente perplessa.<br />

«Di datori di lavoro. Lavoravo in Confartigianato. Una specie<br />

di Confindustria delle imprese artigiane, le imprese piccole. Ci

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