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sommario - Ordine degli Avvocati di ROMA

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338<br />

ATTIVITA' DEL CONSIGLIO<br />

non detti, in forme lessicali, grammaticali e semantiche <strong>di</strong>verse, i nostri pensieri sono, in<br />

misura schiacciante, un universale umano, una proprietà comune. Sono stati pensati, sono<br />

pensati, saranno pensati milioni e milioni <strong>di</strong> volte da altri.<br />

Inaccessibilità, dunque, e comunanza; finzione e identità <strong>di</strong> pensiero.<br />

Impenetrabilità e reiterazione del nostro linguaggio, della nostra cultura, tempo ed<br />

ambiente. La prova, poi, verte non sul pensiero inteso come concepimento, ma sul pensiero<br />

tradotto in azione, che si é realizzato “materialmente” (un’opera, una organizzazione, un<br />

fatto).<br />

E’ comune, appartiene all’universale l’ideazione (pur così particolare) che ramifica in<br />

qualcosa <strong>di</strong> percepibile, <strong>di</strong> comprensibile, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> riferibile.<br />

3.4) Forse se ne sta rendendo conto perfino il nostro legislatore che – con l’art. 22 D. Lgs.<br />

2 febbraio 2006 n. 40 – ha introdotto l’art. 816 ter c.p.c. per l’istruttoria probatoria nel<br />

proce<strong>di</strong>mento arbitrale (o forse no?):<br />

“Gli arbitri possono assumere <strong>di</strong>rettamente presso <strong>di</strong> sé la testimonianza, ovvero<br />

deliberare <strong>di</strong> assumere la deposizione del testimone, ove questi vi consenta, nella sua<br />

abitazione o nel suo ufficio: Possono altresì deliberare <strong>di</strong> assumere la deposizione richiedendo<br />

al testimone <strong>di</strong> fornire per iscritto risposte a quesiti nel termine che essi stessi stabiliscono”<br />

(finora tutta la compatta giurisprudenza ha ritenuto le <strong>di</strong>chiarazioni dei terzi meri argomenti<br />

<strong>di</strong> prova).<br />

Per la tesi dell’incostituzionalità <strong>di</strong> tale norma, v. Rubino – Sammartano, “Il <strong>di</strong>ritto<br />

dell’arbitr.”, Padova, 2006, 766).<br />

L’umile abbandono della verità porta a definire la prova come l’attività processuale che<br />

tende a raggiungere la certezza del giu<strong>di</strong>ce rispetto agli elementi addotti dalle parti, certezza<br />

che, in alcuni casi, deriverà dal convincimento psicologico dello stesso giu<strong>di</strong>ce e, in altri,<br />

delle norme legali che fisseranno i fatti.<br />

Il giu<strong>di</strong>ce non può decidere , giacché la necessità <strong>di</strong> motivare la<br />

sentenza deve portarlo a spiegare in modo ragionato come sia giunto a formare il proprio<br />

convincimento partendo dai mezzi <strong>di</strong> prova assunti.<br />

Tutto ciò senza mai <strong>di</strong>menticare l’art. 2697 cod. civ. che ha la funzione <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>re<br />

sentenze <strong>di</strong> non liquet, e costituisce una scelta <strong>di</strong> civiltà giuri<strong>di</strong>ca giacché si proibisce al<br />

giu<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> dare per esistenti fatti <strong>di</strong> cui non gli sia stata offerta prova piena e convincente.<br />

03_attivita del consiglio_2.pmd 338<br />

22/06/2007, 11:18<br />

Avv. Carlo Silvetti<br />

FORO <strong>ROMA</strong>NO 2/2007

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