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Visualizza/apri - ART - Università degli Studi di Roma Tor Vergata

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glèsshj. Mi trovo pertanto in <strong>di</strong>saccordo con Barigazzi 505 , che propone<br />

quale traduzione del <strong>di</strong>stico “Oh, il troppo sapere è funesto! Chi è<br />

intemperante <strong>di</strong> lingua, costui, come un bambino, possiede veramente<br />

un coltello”, interpretando teón quale avverbio collegato a œcei.<br />

Ritengo invece che l’avverbio debba essere associato a un sottinteso<br />

lšgetai, che creerebbe una comparazione più efficace con ciò che<br />

Callimaco “<strong>di</strong>ce” nel verso precedente 506 .<br />

Va peraltro ricordato come sia consuetu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Callimaco conferire<br />

veri<strong>di</strong>cità ai proverbi. Nel primo capitolo si è infatti registrata una<br />

frequente presenza dell’ aggettivo ÞlhqÔj, proprio all’ interno <strong>di</strong> passi<br />

ove esso funge a sancire la veri<strong>di</strong>cità dei luoghi comuni della<br />

tra<strong>di</strong>zione 507 .<br />

L’ impiego della forma avverbiale teón, qui usato in luogo del più<br />

comune ÞlhqÔj, rappresenta una delle numerose riprese callimachee<br />

della <strong>di</strong>zione omerica, che, come è stato osservato 508 , si incontrano<br />

<strong>di</strong>sseminate in tutta l’ opera dell’ Alessandrino senza mai essere<br />

allusive al genere letterario <strong>di</strong> riferimento 509 , ma che rappresentano<br />

altresì un puro gioco espressivo 510 . Le riprese omeriche vengono infatti<br />

inserite da Callimaco in <strong>di</strong>versi contesti, principalmente allo scopo <strong>di</strong><br />

far percepire al lettore la sua abilità a variare i nessi epici più consueti.<br />

Ciò avviene anche nel passo in questione. Callimaco infatti non solo<br />

impiega l’ omerico teón in un contesto non epico, ed in relazione ad un<br />

genere <strong>di</strong> espressione per la quale egli <strong>di</strong> norma utilizza l’ aggettivo<br />

ÞlhqÔj, bensì estrapola il lessema dalla consueta iunctura omerica eê<br />

æteón, per legarlo a æj, generando così una nuova iunctura ignota ad<br />

Omero 511 .<br />

505<br />

Cfr. 1975, p. 206.<br />

506<br />

Ciò sembrerebbe trovare conferma nelle numerose attestazioni dell’associazione dell’aggettivo<br />

ÞlhqÔj o dei suoi sinonimi al nesso tò legÒmenon, in contesti ove venga sancita la veri<strong>di</strong>cità <strong>di</strong> ciò che<br />

è proverbiale; cfr. ad es. Plat., Symp. 217e: tò legÒmenon, o%inoj ¥neu te paídwn %hn ÞlhqÔj.<br />

507<br />

Ve<strong>di</strong> supra.<br />

508<br />

Cfr. Fantuzzi, op. cit., 1988, pp. 20-21.<br />

509<br />

Fatta eccezione per l’ Ecale.<br />

510<br />

A questo proposito cfr. anche Bornmann, 1968, p. LIII.<br />

511<br />

Sebbene il sintagma æj teòn sia presente anche in Apollonio Ro<strong>di</strong>o ( I, 763: n kaì Fr…xoj œhn<br />

Minu»ioj, æj teÒn per), va precisato che esso compare un’ unica volta. Sulle <strong>di</strong>eci occorrenze in cui<br />

Apollonio impiega il neutro avverbiale teón otto volte il lessema è infatti inserito nella iunctura eê<br />

æteón, che in Callimaco è del tutto assente. Ciò manifesta il <strong>di</strong>verso modo <strong>di</strong> relazionarsi alla <strong>di</strong>zione<br />

omerica da parte dei due alessandrini.<br />

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