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Sant'Agostino "De Trinitade"

Il De Trinitate (Sulla Trinità) è un trattato in quindici libri di Agostino d'Ippona, considerato il suo capolavoro dogmatico. Infatti l'opera a quel tempo chiuse per sempre tutte le speculazioni e le incertezze che riguardavano la Trinità ovvero Dio stesso.

Il De Trinitate (Sulla Trinità) è un trattato in quindici libri di Agostino d'Ippona, considerato il suo capolavoro dogmatico. Infatti l'opera a quel tempo chiuse per sempre tutte le speculazioni e le incertezze che riguardavano la Trinità ovvero Dio stesso.

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muove un corpo vivente, non si apre ai nostri occhi alcuno spiraglio per cui possiamo<br />

percepire l’anima, realtà che non si può vedere con gli occhi. Ma noi percepiamo che c’è<br />

in quella massa corporea un principio analogo a quello che in noi muove similmente la<br />

nostra massa: questo principio è la vita e l’anima (anima). Ed esso non è come un<br />

qualcosa di esclusivo della prudenza e della ragione dell’uomo, perché anche le bestie<br />

sentono che vivono non soltanto esse stesse, ma anche altre bestie in relazione con loro<br />

e sentono che anche noi stessi viviamo. Non è che vedano le nostre anime ma sentono<br />

che noi viviamo a partire dai movimenti dei corpi e lo fanno istantaneamente e con la<br />

massima facilità per una specie d’istinto naturale. Perciò noi conosciamo l’anima (animus)<br />

di qualsiasi uomo per analogia con la nostra, e per analogia con la nostra crediamo in<br />

quella che non conosciamo. Infatti noi non soltanto sentiamo l’anima, ma possiamo<br />

anche sapere che cosa sia l’anima, considerando la nostra, perché abbiamo un’anima. Ma<br />

che cosa sia un giusto, da che cosa lo conosciamo? Abbiamo detto che il solo motivo per<br />

cui amiamo l’Apostolo è che egli è un’anima giusta. Dunque noi sappiamo che cos’è un<br />

giusto, come sappiamo che cos’è un’anima. Ma che cosa sia un’anima, come si è detto,<br />

noi lo sappiamo da noi stessi, perché c’è in noi un’anima. Al contrario che cosa sia un<br />

giusto da che cosa lo sappiamo, se non siamo giusti? Se nessuno sa che cosa sia un<br />

giusto se non colui che è giusto, nessuno ama il giusto se non il giusto. Nessuno può<br />

infatti amare colui che crede giusto, precisamente perché lo crede giusto, se ignora che<br />

cosa sia un giusto, e secondo quanto abbiamo più sopra dimostrato nessuno ama ciò che<br />

crede e non vede, se non secondo una norma di conoscenza generica o specifica. Ma<br />

allora, se ama il giusto solo il giusto, come vorrà essere giusto uno che non lo è ancora?<br />

Nessuno infatti vuol essere ciò che non ama. Ma perché divenga giusto colui che non lo è<br />

ancora, deve proprio voler essere giusto; e per volerlo ama il giusto. Perciò ama il giusto<br />

anche chi ancora non è giusto. Ma non può amare il giusto se ignora che cosa sia il<br />

giusto. Dunque sa che cosa sia il giusto anche chi non lo è ancora. Da dove gli deriva<br />

questa conoscenza? L’ha visto con gli occhi, o c’è forse un corpo giusto, come c’è un<br />

corpo bianco, nero, quadrato, rotondo? Chi oserà affermarlo? Ma con gli occhi si vedono<br />

solo i corpi. Ora nell’uomo non è giusta che l’anima e quando si dice che un uomo è<br />

giusto lo si dice secondo l’anima, non secondo il corpo. La giustizia è una specie di<br />

bellezza dell’anima; essa rende belli gli uomini, anche molti di quelli che hanno il corpo<br />

contraffatto e deforme. Ma come con gli occhi non si vede l’anima, così non si vede<br />

nemmeno la sua bellezza. Da che cosa apprende dunque che cosa sia il giusto, colui che<br />

non lo è ancora ed ama il giusto per diventarlo? Forse che i movimenti dei corpi fanno<br />

brillare certi segni i quali rivelano che questo o quest’altro uomo è giusto? Ma da che<br />

cosa sa che quei segni rivelano un’anima giusta, se ignora totalmente che cosa sia un<br />

giusto? Lo sa dunque. Ma da che cosa apprendiamo che cosa sia il giusto, anche quando<br />

non siamo giusti? Se lo sappiamo per qualcosa che è fuori di noi, lo vediamo in qualche<br />

corpo. Ma quella che vediamo non è una realtà corporea. È dunque in noi che vediamo<br />

che cosa sia il giusto. Quando cerco di parlarne non ne trovo l’idea altrove, ma solo in<br />

me; e se chiedo ad un altro che cosa sia il giusto, è in se stesso che egli cerca ciò che<br />

deve rispondere; e chiunque su questo punto può rispondere il vero, trova in se stesso<br />

che cosa può rispondere. Così quando voglio parlare di Cartagine, è in me che cerco ciò<br />

che ne dirò, e in me trovo l’immagine (phantasia) di Cartagine 34; ma questa immagine<br />

l’ho ricevuta per mezzo del corpo, cioè per mezzo dei sensi del corpo, perché è una città<br />

in cui sono stato fisicamente presente, che ho visto, percepito con i miei sensi, di cui<br />

conservo il ricordo, cosicché ne trovo in me un verbo quando intendo parlarne. Questo<br />

"verbo" è l’immagine (phantasia) che ne conservo nella mia memoria; non questo suono,<br />

queste tre sillabe che pronuncio quando nomino Cartagine, neppure il nome che penso in<br />

silenzio durante un certo intervallo di tempo; no, è ciò che vedo nella mia anima quando<br />

pronuncio queste tre sillabe o anche prima di pronunciarle. Così pure, quando voglio<br />

parlare di Alessandria, che non ho mai visto, ne appare in me una rappresentazione<br />

immaginaria (phantasma). Avendo sentito dire da molti ed essendomi persuaso,<br />

prestando fede alle descrizioni che a me se ne sono potute fare, che è una grande città,<br />

me ne sono formato con l’anima un’immagine approssimativa; questa immagine è il suo<br />

"verbo" in me, quando voglio parlarne, prima che abbia pronunciato queste cinque<br />

sillabe, questo nome che quasi tutti conoscono. E tuttavia se io potessi far uscire questa<br />

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