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Una lingua che combatte - DSpace@Unipr

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snaturano. An<strong>che</strong> di quelle più salvifi<strong>che</strong> è rimasto poco, esse hanno perduto il loro<br />

télos originario, e non possono resistere al mutamento della loro stessa sostanza (ci<br />

troviamo di fronte ai vari effetti della «frana della ragione»). Così dopo la “teo-alogia”<br />

del Muro, la teologia illogica della negazione e dell’invettiva contro Dio, Caproni<br />

giunge a raffigurare un Cristo piangente, chiuso nel «cesso», una misera «statua di<br />

gesso» (Telemessa in Il franco cacciatore). L’immagine rende Dio ancora più lontano<br />

dai bisogni dell’uomo, ancor più inconoscibile e irriconoscibile, vera e propria icona<br />

negativa in cui si annulla ogni valore messianico e utopico.<br />

Se ogni grazia è Res amissa, se ogni speranza nel futuro, in una rivoluzione <strong>che</strong> sia<br />

generatrice di civiltà, è perduta, è a causa di una vita fasulla, svenduta al denaro e<br />

inquinata dal potere e dalla retorica di un <strong>lingua</strong>ggio impoverito e mistificatorio.<br />

Assistiamo dunque esterrefatti allo Show, una parata di falliti «Arrampichini. /<br />

Arrivisti.», <strong>che</strong> «In nome del Popolo / arraffano» e, sordi al monito del preticello,<br />

«Investono / all’estero, mentre “auspicano” / (Dio quanto auspicano!) / pace e<br />

giustizia». Torna la vis polemica delle raccolte precedenti, contro l’irreligione dell’avere<br />

<strong>che</strong> soffoca l’essere, contro coloro <strong>che</strong> «Han la testa sul collo, / dicon loro. Di pollo. / I<br />

piedi sulla terra. / Lavoran per la pace / preparando la guerra» (Lorsignori), «Loro, / i<br />

veri seviziatori / della Giustizia in nome / (sempre, sempre in nome!) / del Dollaro e<br />

dell’Oro» (Show). Il disastro ecologico dell’idrometra qui si spoglia di ogni metafisica,<br />

e gravati dal peso della colpa sprofondiamo an<strong>che</strong> noi nella melma di un «paese<br />

guasto», in cui la testimonianza del poeta è destinata a rimanere inascoltata: «Non<br />

uccidete il mare, / la libellula, il vento. / […] E chi per profitto vile / fulmina un pesce,<br />

un fiume, / non fatelo cavaliere / del lavoro» (Versicoli quasi ecologici).<br />

Parlando di una natura <strong>che</strong> subisce le nostre colpe egli intende soprattutto<br />

sottolineare il dramma civile dell’uomo moderno: l’inquinamento del <strong>lingua</strong>ggio è, in<br />

ultima analisi, inquinamento del mondo. Il poeta preleva le parole dai circuiti<br />

dell’informazione di massa e ce le presenta logore e sfatte. Frasi fatte <strong>che</strong> a furia d’esser<br />

ripetute, spesso a sproposito, trapassano nell’inconscio senza passare per la coscienza<br />

(«Eccidio o massacro / son nomi. (Così come il Sacro)», Attualità). Siamo a diretto<br />

contatto con la loro violenza, ci confrontiamo con la loro rinascita e il continuo declino.<br />

Le parole non possono più aggiungere un senso alle cose, non possono interpretarle, ma<br />

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