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DISPENSE DI ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE II (nuovo ...

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Dispense di Strategie d’impresa 2003Professor Cristiano Ciappeithinking. In realtà, così come è stato praticato, il processo di pianificazione strategica ha finito per essere unprocesso di programmazione, ossia un’articolazione e una rielaborazione di strategie che già esistevano. «Lapianificazione formale, a causa della sua natura analitica, è stata, e sempre sarà, dipendente dalmantenimento e dalla modificazione di categorie già stabilite - i livelli già esistenti di strategia (corporate,business, funzionale), i tipi di prodotti stabiliti (definiti come “strategic business units”), gravati dallegenerali unità della struttura (divisioni, dipartimenti, ecc.)» (Mintzberg, 1994, p. 109).Al contrario, il processo strategico dovrebbe consistere nel «… sintetizzare ciò che è stato appreso (daflussi informativi provenienti da fonti interne ed esterne all’organizzazione, esperienze personali e dei propricollaboratori, dati ricavati da ricerche di mercato, ecc.) in una visione della direzione che il businessdovrebbe seguire» (Mintzberg, 1994, p. 107).L’autore individua nell’eccessiva razionalizzazione dei processi di pianificazione strategica e nel fattoche rappresentino un’esclusiva degli alti vertici aziendali la causa del loro parziale fallimento e, allo stessotempo, la ragione per cui alcune delle migliori e più grandi aziende al mondo non sono riuscite a mantenere ivantaggi competitivi precedentemente conquistati. Si dovrebbe passare da un “calculating style” delmanagement ad un “committing style”, da un sistema in cui il processo di pianificazione strategica è di tipotop down ad uno in cui le idee ed i suggerimenti scaturiscono anche dalla “linea” (bottom up), adun’organizzazione in cui si incoraggia l’apprendimento informale, ad ogni livello della struttura,integrandolo con la pianificazione formale, di natura analitica, sviluppata dai manager.Le critiche di Mintzberg ai sistemi tradizionali di pianificazione strategica non sono esclusivamente“distruttive”, come si evince chiaramente dal titolo dell’articolo (The Fall and Rise of Strategic Planning),egli, anzi, mette in evidenza i pitfall (i tranelli, le trappole) dello strategic planning, suggerendo di nondisfarsi affatto delle tecniche fino ad oggi utilizzate, ma di integrarle e modificarle in modo da renderle piùefficaci e funzionali nel contesto attuale.Riteniamo che un modo con cui integrare le metodologie tradizionali di pianificazione, cosa che peraltronon arriva a suggerire Mintzberg, potrebbe consistere nell’affiancare ai sistemi classici di strategic planning,quelli elaborati dalle teorie dell’impresa basata sulle competenze. Come avremo modo di illustrare tra poco,infatti, col trascorrere del tempo e l’evolversi del contesto economico mondiale, è emersa la necessità diesaminare da vicino il vantaggio competitivo, comprendere le radici in cui questo affonda, e, soprattutto,trovare le modalità attraverso cui mantenerlo.Porter parte dall’osservazione del mercato e dall’analisi delle aziende che riescono a differenziare laloro performance rispetto ai concorrenti, dato il contesto in cui operano. Hamel suggerisce diversamente cheil contesto competitivo sia definito dall’azienda, dalle scelte strategiche di quest’ultima e dal potenzialestrategico che essa è in grado di sviluppare. Non si deve, come dice lo stesso Hamel, arrivare a negarel’importanza delle strategie nelle singole aree di affari, ma in modo complementare, integrarle con le scelte alivello di core products e core competences.4.6 Performance-enhancing culturesUno studio riportato da Hodgetts, Luthans e Lee (1994), classifica le 100 imprese industriali più grandidegli Stati Uniti nel 1980. Dopo averle seguite fino al 1992, gli autori hanno raccolto i seguenti dati: soltantoil 56% di esse risultava ancora nelle top 100 dopo dodici anni e soltanto il 18% era salito in graduatoria. Inaltre parole, nell’arco di quel periodo, l’82% delle imprese aveva peggiorato la propria performance o era,addirittura, scomparsa dalla lista. In pratica, anche le più grandi e migliori imprese statunitensi avevanoavuto seri problemi a mantenere nel tempo il proprio vantaggio competitivo.Long e Vickers-Coch, interrogandosi sul ruolo assunto in questo contesto dalla strategia aziendale,concludono che la pianificazione strategica elaborata da queste imprese dedichi eccessiva attenzione allasoddisfazione degli sharehloder e troppo poca alla creazione di valore per i clienti, i prestatori di lavoro e glialtri gruppi di stakeholder. Essi affermano che «la considerazione del prezzo delle azioni come determinantedel valore aziendale e della SBU come livello esclusivo di competizione, ha condotto spesso a risultatiinfelici» (Long e Vickers-Coch, 1996, p. 11).ecc.). Un elemento sembra, comunque, accomunare le varie interpretazioni: l’idea che la vision faccia riferimento aduno stato futuro realistico, credibile e desiderabile per l’azienda, nonché raggiungibile attraverso una serie di mossestrategiche già delineabili anche se non ancora rigidamente definite. Possiamo, quindi, definire la vision come: unprogetto fortemente impegnativo, il disegno di ciò che un’azienda spera ed auspica di diventare; una guida ambiziosa,ma realizzabile delle priorità aziendali, costruita sulla base di realistici scenari interni ed esterni.” (Decastri 1998, p. 18).99

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