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PAGINA<br />
5 .<br />
<strong>L'OSSERVATORE</strong> <strong>ROMANO</strong> Mercoledì 12 Dicembre 2001<br />
La presentazione del Messaggio di Giovanni Paolo II<br />
per la XXXV Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2002)<br />
L'intervento del Cardinale<br />
François Xavier Nguyên Van Thuân<br />
Pubblichiamo l'intervento del Cardinale<br />
François Xavier Nguyên Van Thuân,<br />
Presidente del Pontificio Consiglio della<br />
Giustizia e della Pace, alla conferenza<br />
stampa di presentazione, tenutasi nella<br />
Sala Stampa della Santa Sede, del Messaggio<br />
di Giovanni Paolo II per la<br />
XXXV Giornata Mondiale della Pace:<br />
Saluto volentieri tutti i partecipanti a<br />
questo periodico appuntamento annuale:<br />
oggi, ho l’onore di presentarvi il<br />
Messaggio per la prossima Giornata<br />
Mondiale della Pace, la 35ª da quando<br />
fu istituita da Paolo VI nel 1968.<br />
Il Messaggio si apre evocando il cupo<br />
scenario internazionale in cui vive l’umanità<br />
dopo l’11 settembre, per affermare<br />
subito che «il male, il mysterium<br />
iniquitatis, non ha l’ultima parola nelle<br />
vicende umane», perché la salvezza<br />
annunciata nella Bibbia «proietta grande<br />
luce sull’intera storia del mondo»<br />
(n. 1).<br />
Fin dall’inizio del suo Messaggio, il<br />
Santo Padre ha voluto sottolineare il<br />
fattore speranza: le tenebre del male<br />
non sono mai sufficienti a oscurare la<br />
luce della divina provvidenza, anzi la<br />
fanno risaltare di più e perciò la Chiesa<br />
guarda con fiducia incrollabile verso il<br />
nuovo anno 2002, malgrado «i terribili<br />
fatti di sangue appena ricordati» (n. 2).<br />
Giovanni Paolo II si abbandona a<br />
una testimonianza personale, ricordando<br />
le «immani sofferenze» causate dai<br />
totalitarismi del secolo passato e esprimendo<br />
il profondo convincimento che<br />
la via per riportare l’ordine nel mondo<br />
passa attraverso due tappe, entrambe<br />
necessarie e articolate tra loro: quella<br />
della giustizia e quella del perdono.<br />
Il Santo Padre è consapevole della<br />
difficoltà di parlare proprio oggi di<br />
giustizia associata al perdono. Tuttavia,<br />
pur nel ribadire che «la vera pace<br />
è frutto della giustizia», Giovanni<br />
Paolo II ricorda come la giustizia umana,<br />
per la sua fragilità, vada «esercitata<br />
e in certo senso completata con<br />
il perdono che risana le ferite» (n. 3).<br />
Non si tratta infatti di contrapporre<br />
giustizia e perdono in modo da sottrarsi<br />
all’esigenza di riparare l’ordine ingiustamente<br />
leso: «Il perdono mira<br />
piuttosto a quella pienezza di giustizia<br />
che conduce alla tranquillità dell’ordine»,<br />
perché «è risanamento in profondità<br />
delle ferite che sanguinano negli animi»<br />
(n. 3).<br />
Con una tale impostazione il Messaggio<br />
affronta la questione del terrorismo,<br />
rilevando non solo che esso «si è trasformato<br />
in una rete sofisticata di connivenze<br />
politiche, tecniche ed economiche<br />
che travalica i confini nazionali e<br />
si allarga fino ad avvolgere il mondo<br />
intero» ma che «si fonda sul disprezzo<br />
della vita dell’uomo» e costituisce «un<br />
vero crimine contro l’umanità» (n. 4).<br />
Pertanto, esiste «un diritto a difendersi<br />
dal terrorismo», un diritto che deve<br />
«rispondere a regole morali e giuridiche<br />
nella scelta sia degli obiettivi che<br />
dei mezzi» (n. 5).<br />
In particolare, la lotta contro il terrorismo<br />
non può prescindere dall’impegno<br />
«sul piano politico, diplomatico ed<br />
economico per risolvere con coraggio e<br />
determinazione le eventuali situazioni<br />
di oppressione e di emarginazione che<br />
fossero all’origine dei disegni terroristici»<br />
(n. 5). In ogni caso, «le ingiustizie<br />
che esistono nel mondo non possono<br />
mai essere usate come scusa per giustificare<br />
gli attentati terroristici» (n. 5).<br />
Giovanni Paolo II non manca di riferirsi<br />
a quel terrorismo «figlio di un fondamentalismo<br />
fanatico, che nasce dalla<br />
convinzione di poter imporre a tutti<br />
l’accettazione della propria visione della<br />
verità» (n. 6). Una posizione infondata,<br />
in quanto la verità non può mai essere<br />
imposta, ma solo proposta: «Pre-<br />
tendere di imporre agli altri con la violenza<br />
quella che si ritiene essere la verità<br />
significa violare la dignità dell’essere<br />
umano e, in definitiva, fare oltraggio<br />
a Dio, di cui egli è immagine» (n. 6).<br />
Su tale punto, il Santo Padre è molto<br />
chiaro: «Il fanatismo fondamentalista è<br />
un atteggiamento radicalmente contrario<br />
alla fede in Dio» (n. 6) e «nessun responsabile<br />
delle religioni, pertanto, può<br />
avere indulgenza verso il terrorismo e,<br />
ancor meno, lo può predicare» (n. 7).<br />
In special modo, la violenza del terrore<br />
è «totalmente contraria alla fede in Cristo<br />
Signore, che ha insegnato ai suoi<br />
discepoli a pregare: “Rimetti a noi i nostri<br />
debiti, come noi li rimettiamo ai nostri<br />
debitori” (Mt 6, 12)» (n. 7).<br />
I cristiani sono chiamati ad essere<br />
misericordiosi perché a loro «è stato<br />
mostrata misericordia da un Dio che è<br />
amore misericordioso (cfr 1 Gv 4, 7-12)»<br />
e quindi «devono essere sempre uomini<br />
e donne di misericordia e di perdono»<br />
(n. 7).<br />
Il Santo Padre si chiede poi «cosa significa,<br />
in concreto, perdonare? E perché<br />
perdonare?» (n. 8). Egli mette in rilievo<br />
la radice divina del perdono ricordando<br />
le parole di Cristo sulla croce:<br />
«Padre, perdona loro, perché non sanno<br />
quello che fanno» (Lc 23, 24), ma al<br />
tempo stesso afferma il valore del perdono<br />
anche sul piano della ragionevolezza<br />
umana, riferendosi al sentimento<br />
di riscatto personale che alberga in<br />
ogni cuore umano. Per il Santo Padre,<br />
il perdono non ha solo una valenza<br />
personale, ma pure una dimensione sociale,<br />
poiché la sua mancanza innesca<br />
una spirale permanente di conflittualità<br />
che impedisce lo sviluppo dei popoli:<br />
«La pace è la condizione dello sviluppo,<br />
ma una vera pace è resa possibile soltanto<br />
dal perdono» (n. 9).<br />
Il Messaggio sottolinea la paradossalità<br />
del perdono: a differenza della vio-<br />
lenza, esso «comporta sempre un’apparente<br />
perdita a breve termine, mentre<br />
assicura un guadagno reale a lungo termine»<br />
(n. 10). Il perdono potrebbe apparire<br />
come una debolezza, ma in realtà<br />
«suppone una grande forza spirituale<br />
e un coraggio morale a tutta prova»<br />
(n. 10).<br />
Tali parole suonano profetiche nell’attuale<br />
contesto della Terra Santa. Il<br />
Santo Padre auspica che si giunga infine<br />
ad un «negoziato risolutore» e invoca<br />
una «volontà di giustizia e di riconciliazione»<br />
(n. 11).<br />
Giovanni Paolo II insiste sulla responsabilità<br />
che le autorità religiose<br />
hanno di collaborare «per eliminare<br />
le cause sociali e culturali del terrorismo,<br />
insegnando la grandezza e la<br />
dignità della persona e diffondendo<br />
una maggiore consapevolezza dell’unità<br />
del genere umano» (n. 12). In particolare,<br />
il Santo Padre invita i capi religiosi<br />
ebrei, cristiani e musulmani a<br />
«prendere l’iniziativa mediante la condanna<br />
pubblica del terrorismo, rifiutando<br />
a che se ne rende partecipe ogni<br />
forma di legittimazione religiosa o morale»<br />
(n. 12).<br />
Il Messaggio si riferisce al servizio<br />
che le religioni possono offrire alla costruzione<br />
della pace con un’appropriata<br />
«pedagogia del perdono», poiché «l’uomo<br />
che perdona o chiede perdono capisce<br />
che c’è una verità più grande di<br />
lui, accogliendo la quale egli può trascendere<br />
se stesso» (n. 13).<br />
In tale prospettiva, il Santo Padre<br />
mette in risalto l’importanza della preghiera<br />
per la pace, che «sta al cuore<br />
dello sforzo per l’edificazione di una<br />
pace nell’ordine, nella giustizia e nella<br />
libertà» (n. 14). Egli non manca di riferirsi<br />
alla Giornata mondiale di preghiera<br />
per la pace che si svolgerà ad Assisi<br />
il prossimo 24 gennaio, con la quale<br />
s’intende «mostrare che il genuino sen-<br />
Presso la Sala Stampa della Santa Sede, nella mattina di martedì 11<br />
dicembre, ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione del<br />
Messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazione della XXXV Giornata<br />
mondiale della Pace sul tema: «Non c'è pace senza giustizia, non c'è<br />
giustizia senza perdono» (1° gennaio 2002).<br />
Alla conferenza stampa sono intervenuti il Cardinale François Xavier<br />
Nguyên Van Thuân, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e<br />
della Pace; il Vescovo Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio<br />
della Giustizia e della Pace; Mons. Frank J. Dewane e il Dott. Giorgio<br />
Filibeck, rispettivamente Sotto-Segretario e Officiale del medesimo<br />
Pontificio Consiglio.<br />
timento religioso è una sorgente inesauribile<br />
di mutuo rispetto e di armonia<br />
tra i popoli: in esso, anzi, risiede il<br />
principale antidoto contro la violenza e<br />
i conflitti» (n. 14).<br />
Il pensiero conclusivo del Santo Padre<br />
va alle vittime del terrorismo, alle<br />
loro famiglie, ai popoli feriti dal terrore<br />
e dalla guerra, e infine agli attentatori<br />
stessi, i quali «offendono gravemente<br />
Dio e l’uomo mediante questi atti senza<br />
pietà: sia loro concesso di rientrare in<br />
se stessi e di rendersi conto del male<br />
che compiono, così che siano spinti ad<br />
abbandonare ogni proposito di violenza<br />
e a cercare il perdono» (n. 15).<br />
Le ultime righe del Messaggio esprimono<br />
l’accorato auspicio del Santo Padre:<br />
«Possa l’umana famiglia trovare<br />
pace vera e duratura, quella pace che<br />
solo può nascere dall’incontro delle<br />
giustizia con la misericordia!» (n. 15).<br />
Ascoltiamo queste parole piene di speranza<br />
e apriamo i nostri cuori alla forza<br />
dell’amore, la sola forza capace di<br />
superare le divisioni e le lacerazioni<br />
che sconvolgono l’unica famiglia alla<br />
quale tutti apparteniamo.<br />
Il Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo di Bologna, al ciclo di conferenze dirette ai docenti dell'Università<br />
Gesù Cristo, «cuore» dell'annuncio cristiano, parla agli uomini del nostro tempo<br />
Il Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo<br />
di Bologna, ha tenuto — giovedì<br />
6 dicembre, nell'Aula di Istologia dell'Università<br />
di Bologna — la seconda<br />
lezione legata al ciclo di conferenze sul<br />
tema di fondo: «Il “cuore” dell'annuncio<br />
cristiano». Il tema della lezione è stato:<br />
«L'annuncio di una persona».<br />
Pubblichiamo parte dell'intervento<br />
svolto dal Cardinale Biffi:<br />
«Gli evangelizzò Gesù» (At 8, 35:<br />
euenghelìsato autò ton Iesoùn). L’icastica<br />
espressione degli Atti degli apostoli<br />
— che così sintetizzano tutto l’insegnamento<br />
impartito da Filippo al ministro<br />
della regina Candace — ci fa capire che<br />
il contenuto primordiale e onnicomprensivo<br />
dell’annuncio cristiano è, oltre che<br />
un «fatto», anche una «persona»; senza<br />
che per questo si possa parlare di un’alterità<br />
né tanto meno di un’opposizione<br />
tra i due dati.<br />
«È stato risvegliato» (eghèrthe), del resto,<br />
non è una forma impersonale: ha<br />
un soggetto che è Gesù di Nazareth. A<br />
lui si riferisce il «fatto»; e quindi nella<br />
sostanza è lui il «cuore» e il compendio<br />
di quel messaggio pasquale che sta all’origine<br />
dell’intera storia cristiana e ne costituisce<br />
l’impulso permanente e insostituibile.<br />
Non ci meraviglierà allora il vedere<br />
che negli scritti neotestamentari molte<br />
delle antiche formule — dirette a esprimere<br />
l’essenza stessa dell’Evangelo e la<br />
sua assoluta novità entro il contesto religioso<br />
israelitico — siano eminentemente<br />
«cristologiche».<br />
1. «Gesù è Signore»<br />
Il titolo tipico e più comune che Gesù<br />
acquisisce presso i discepoli in conseguenza<br />
e in virtù della sua Pasqua —<br />
cioè del suo «passaggio» dalla tribolata<br />
esistenza terrena alla gloria della vita risorta<br />
— è quello di «Signore» (Kýrios).<br />
Il termine era già stato usato nei suoi<br />
confronti negli anni «prepasquali», come<br />
risulta dalle narrazioni evangeliche, a significare<br />
semplicemente rispetto e cortesia<br />
conformemente alle normali abitudini<br />
sociali.<br />
Ma dopo l’evento pasquale assume<br />
un’altra e ben diversa valenza, riacquistando<br />
l’accezione nativa che indicava<br />
«potenza», «dominazione», «autorità».<br />
Con questo contenuto semantico era<br />
già entrato nel linguaggio dei vari culti<br />
greci a evocare una prerogativa divina e<br />
anzi la stessa Divinità. Nell’ebraismo ellenistico<br />
Kýrios è impiegato come traduzione<br />
di «Adonài», e quindi come sinonimo<br />
di Theòs: Dio.<br />
La signoria del Risorto<br />
La prima comunità cristiana attribuisce<br />
la qualifica di Kýrios a Gesù di Nazareth,<br />
con la chiara ed esplicita consapevolezza<br />
dell’intima connessione di<br />
questo titolo con la nuova condizione di<br />
«risorto» del figlio di Maria, cui adesso<br />
«è stato dato ogni potere in cielo e in<br />
terra» (cfr Mt 28, 18).<br />
Tale connessione è apertamente dichiarata<br />
nella formula di fede, riferita<br />
dalla lettera ai Romani, quale era proposta<br />
ai neofiti:<br />
«Se confesserai con la tua bocca che<br />
Gesù è Signore, e crederai col tuo cuore<br />
che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai<br />
salvo» (Rm 10, 9).<br />
Proprio l’accoglimento della signoria<br />
del Risorto è qui ritenuta condizione indispensabile<br />
per accedere a quella «via<br />
della salvezza» che entrava a costituire<br />
la «buona notizia» annunciata dalla<br />
Chiesa apostolica.<br />
Se ne ha conferma anche dall’episodio<br />
del carceriere di Filippi, raccontato<br />
dagli Atti. A lui, che chiede che cosa<br />
debba fare per essere salvato, Paolo e<br />
Sila rispondono: «Credi nel Signore Gesù<br />
e sarai salvo» (At 16, 31).<br />
Come si vede, la parola «Signore»<br />
(Kýrios), che viene di solito riservata al<br />
Risorto, diventa nei tempi apostolici<br />
quasi comprensiva di tutta la fede cristiana:<br />
aprirsi al Kýrios significa aprirsi<br />
all’intero piano di redenzione incentrato<br />
sulla morte e sulla risurrezione di Cristo.<br />
«Gesù è Signore» è dunque la formula<br />
sintetica dell’intero Evangelo, che ogni<br />
uomo è chiamato ad accettare cordialmente<br />
nel suo mondo interiore e a<br />
proclamare coraggiosamente davanti a<br />
tutti.<br />
Come dice l’inno dei Filippesi: «Ogni<br />
lingua proclami che Gesù Cristo è Signore»<br />
(Fil 2, 11: Cristo Kýrios Iesoùs<br />
Christòs).<br />
A questa fede, che trascende le possibilità<br />
di una conoscenza puramente naturale,<br />
non si arriva se non in grazia di<br />
una illuminazione dall’alto: «Nessuno<br />
può dire: “Gesù è Signore” (Kýrios Iesoùs),<br />
se non sotto l’azione dello Spirito<br />
Santo» (1 Cor 12, 3).<br />
Il vincitore della morte<br />
Scaturendo dall’evento della risurrezione,<br />
la signoria di Cristo è signoria<br />
prima di tutto sulla morte: «La morte<br />
non ha più potere su di lui» (Rm 6, 9).<br />
Il Crocifisso Risorto è vivo non come<br />
chi non ha ancora incontrato la morte<br />
(e quindi è ancora un suo suddito potenziale),<br />
ma come chi, avendola incontrata,<br />
l’ha superata e vinta: egli è quindi<br />
il dominatore della morte.<br />
In questo concreto ordine di cose in<br />
cui ci è toccato di vivere, la morte è la<br />
sola potenza invincibile: tutti appaiono a<br />
lei sottomessi, predestinati a cadere presto<br />
o tardi in suo potere.<br />
Dalla trasgressione di Adamo, essa si<br />
è imposta quasi come l’antitesi di Dio,<br />
che è «vita», e ha fatto del mondo il suo<br />
regno: «La morte ha regnato», dice mestamente<br />
san Paolo (cfr Rm 5, 14.17).<br />
È dunque la «signora» dell’universo;<br />
ma se c’è uno che l’ha sconfitta, allora<br />
il «Signore» è lui.<br />
Avendo spodestato la morte, è subentrato<br />
a lei in tutta l’ampiezza del suo<br />
dominio. Perciò Cristo «è il Signore di<br />
tutti» (cfr At 10, 36). Gli uomini senza<br />
eccezioni — non solo quelli che oggi vivono<br />
sulla terra, ma anche quelli che sono<br />
vissuti prima — trovano in lui il loro<br />
unico re.<br />
«Per questo Cristo è morto ed è tornato<br />
alla vita: per essere il Signore dei<br />
morti e dei vivi» (Rm 14, 9).<br />
L’Apocalisse — libro conclusivo del<br />
Nuovo Testamento — troverà l’espressione<br />
per così dire «metafisica» della signoria<br />
del Risorto: «Io sono il Primo e<br />
l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma<br />
ora vivo per sempre e ho potere sopra<br />
la morte e sopra l’Ade “cioè il soggiorno<br />
dei morti e la sede delle potenze infernale”»<br />
(Ap 1, 17.18).<br />
Signoria di Cristo e libertà dell’uomo<br />
Ci sia consentita una nostra riflessione,<br />
dopo aver ascoltato le testimonianze<br />
della Chiesa apostolica.<br />
«Gesù è Signore»: questa antica formula<br />
è la premessa e il fondamento della<br />
nostra autentica libertà. Noi non abbiamo<br />
né possiamo avere alcun padrone,<br />
perché abbiamo già il nostro padrone.<br />
Di qui è nato e si è sviluppato lenta-<br />
mente ma inesorabilmente il cambiamento<br />
di prospettiva nei rapporti sociali<br />
che ha portato, entro la civiltà cristiana,<br />
all’abolizione irreversibile della schiavitù:<br />
appunto dal sapere e riconoscere<br />
che per tutti — liberi o sottomessi che<br />
siano, entro le strutture mondane —<br />
«c’è un solo Signore nei cieli» (Ef 6, 9).<br />
Rifiutare la signoria di Cristo è porre<br />
le premesse per una ricaduta nell’assoggettamento<br />
a qualche rinascente tirannia,<br />
che in vari travestimenti voglia ripresentarsi<br />
alla ribalta della storia.<br />
Chi non accoglie Gesù risorto come<br />
l’unico Signore, troppo spesso finisce<br />
col lasciarsi dominare da eventuali nuovi<br />
«padroni di uomini», o dai diversi idoli<br />
che sollecitano una indebita adorazione,<br />
o dai miti arbitrari che esigono di<br />
essere onorati come la verità.<br />
Come ripetutamente dice sant’Ambrogio:<br />
«Quanti padroni finisce coll’avere,<br />
chi rifugge dall’unico Signore!» (cfr ad<br />
esempio Epistulae extra collect. XIV,<br />
96).<br />
Un’ultima annotazione: la signoria di<br />
Cristo è la chiave di volta di tutta l’armoniosa<br />
costruzione dell’universo, quale<br />
appare agli occhi del Creatore, dove<br />
non c’è frammento d’essere che sia casuale<br />
e senza appartenenza.<br />
In essa anche noi siamo «signori del<br />
mondo»: desumiamo autorevolezza, «regalità<br />
partecipata», dominio legittimo<br />
sulle creature proprio dalla vitale con-<br />
Budapest: celebrati i funerali<br />
del Nunzio Apostolico Lajos Kada<br />
Il 6 dicembre è stato celebrato a Budapest il funerale di S.E. Mons. Lajos<br />
Kada, Nunzio Apostolico, deceduto il 26 novembre nella medesima città.<br />
La Messa funebre, presente cadavere, è stata presieduta, nella Con-cattedrale<br />
di s. Stefano, da Sua Eminenza il Card. László Paskai, Arcivescovo di<br />
Esztergom-Budapest. Hanno concelebrato il Nunzio Apostolico in Ungheria,<br />
S.E. Mons. Karl-Josef Rauber; S.E. Mons. Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico,<br />
in rappresentanza dell'Em.mo Cardinale Segretario di Stato e degli altri Superiori<br />
della Segreteria di Stato; S.E. Mons. Csaba Ternyák, Segretario della<br />
Congregazione per il Clero; S.E. Mons. István Seregely, Arcivescovo di Eger e<br />
Presidente della Conferenza Episcopale Ungherese; S.E. Mons. Henrich Mussinghof,<br />
Vescovo di Aquisgrana e Vice-presidente della Conferenza Episcopale<br />
Tedesca in rappresentanza della medesima; S.E. Mons. John Bukovsky, Nunzio<br />
Apostolico; l'Arcivescovo di Alba Julia (Romania); quasi tutti i Vescovi ungheresi<br />
ed un folto gruppo di sacerdoti e religiosi.<br />
Assisteva alla S. Messa il Presidente della Repubblica Ungherese, Dr. Ferene<br />
Mádl, altre autorità e numerosi amici ed estimatori del defunto Arcivescovo.<br />
Al Vangelo il Nunzio Apostolico in Ungheria ha pronunziato l'omelia ricordando<br />
i vari periodi della vita del compianto Rappresentante Pontificio, il<br />
suo servizio generoso al Papa e alla Chiesa, come pure il suo caritatevole aiuto<br />
a istituzioni e parrocchie del suo Paese, che in passato aveva sofferto per<br />
l'oppressione comunista.<br />
La salma del Defunto è stata tumulata nella tomba di famiglia nel cimitero<br />
«Kerepesi út» di Budapest, sua città natale. Prima della tumulazione, nella<br />
Cappella del cimitero, ha avuto luogo il rito delle Esequie, durante il quale il<br />
Presidente della Conferenza Episcopale Ungherese ha pronunziato un discorso<br />
esprimendo la viva gratitudine della Chiesa Ungherese per il costante attaccamento<br />
mostratole da S.E. Mons. Kada in tutta la sua vita.<br />
nessione con il Kýrios e dal cordiale riconoscimento<br />
della sua intramontabile<br />
regalità: «Tutte le cose sono vostre, voi<br />
siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1 Cor<br />
3, 23).<br />
2. «Gesù è il Cristo»<br />
A Corinto — raccontano gli Atti —<br />
«Paolo si dedicò tutto alla predicazione,<br />
affermando davanti ai Giudei che Gesù<br />
era il Cristo» (At 18, 5).<br />
Era naturale che, dovendo far conoscere<br />
e accettare la realtà trascendente e<br />
salvifica di Gesù di Nazareth a quanti<br />
erano di religione e di cultura ebraica si<br />
facesse ricorso alla categoria della «messianicità»,<br />
ben presente e diffusa tra gli<br />
israeliti.<br />
Senza dubbio, a facilitare l’approccio<br />
al protagonista dell’evento pasquale giovava<br />
additarlo come la risposta e l’esaudimento<br />
di un’attesa nota e condivisa:<br />
quella di un discendente di Davide, designato<br />
dalla tradizione come il «consacrato»<br />
per eccellenza; consacrato in modo<br />
eminente e singolare con una «unzione»,<br />
così come con una unzione era stata<br />
segnata e santificata, lungo la vicenda<br />
della nazione, la missione dei re, dei sacerdoti<br />
e dei profeti.<br />
«Cristo» — appellativo che subito viene<br />
assegnato al Risorto — è la traduzione<br />
greca della parola «messia», che appunto<br />
vuol dire «unto».<br />
«Gesù è il Cristo»: questa formula si<br />
affianca quindi nella predicazione apostolica<br />
alla formula «Gesù è Signore».<br />
Gesù e il titolo messianico<br />
La prima comunità aveva memoria<br />
che la qualifica messianica era già stata<br />
attribuita al Nazareno nei giorni della<br />
sua vita terrena.<br />
L’episodio più rilevante e meno obliabile<br />
a questo proposito era stata la dichiarazione<br />
di Simon Pietro a Cesarea<br />
di Filippo: «“Voi chi dite che io sia?”<br />
Pietro rispose: “Tu sei il Cristo”» (Mc 8,<br />
29: sý èi o Christòs).<br />
Ma non ci si dimenticava neppure che<br />
il Maestro, su questo punto, a lungo si<br />
era dimostrato guardingo e anzi aveva<br />
intimato addirittura una rigorosa reticenza:<br />
dopo la professione messianica di<br />
Pietro, annota lo stesso evangelista Marco,<br />
«impose loro severamente di non<br />
parlare di lui a nessuno» (Mc 8, 30):<br />
e più esplicitamente Matteo nel passo<br />
parallelo: «Ordinò ai discepoli di non<br />
dire ad alcuno che egli era il Cristo»<br />
(Mt 16, 20).<br />
La ragione di questo atteggiamento è<br />
facilmente intuibile: nel giudaismo dell’epoca<br />
l’attesa messianica era divenuta<br />
più che altro desiderio e sogno di un’azione<br />
di liberazione e di rinascita d’indole<br />
sociale, politica, nazionalistica.<br />
In concreto si aspirava a un «Consacrato»<br />
inviato dal Dio d’Israele, che<br />
spezzasse l’oppressione straniera e re-<br />
staurasse l’antico regno davidico. L’eventualità<br />
di un «messia» di questa natura<br />
era paventato anche dai dominatori<br />
romani; e proprio di questi timori si servono<br />
abilmente le autorità del sinedrio<br />
per spingere all’intervento il riluttante<br />
procuratore Pilato.<br />
Gesù viene condannato appunto con<br />
l’accusa di essersi presentato come «il<br />
Cristo, il re d’Israele» (cfr Mc 15, 32), il<br />
«re dei Giudei» (cfr Mc 15, 26) «detto<br />
Cristo» (cfr Mt 27, 17.22).<br />
Però negli ultimi giorni della sua permanenza<br />
terrena — quando ormai avvertiva<br />
prossima la «catastrofe» del Golgota,<br />
che avrebbe reso improponibile<br />
ogni sviante interpretazione «mondana»<br />
— Gesù aveva sciolto ogni riserva e oltrepassato<br />
tutte le precedenti cautele.<br />
Due occasioni erano state particolarmente<br />
significative ed eloquenti. C’era<br />
stato l’ingresso in Gerusalemme, voluto<br />
e personalmente organizzato da lui,<br />
nel quale egli si lascia acclamare coi<br />
titoli messianici di «Re» (cfr Lc 19, 38),<br />
di «Figlio di Davide» (cfr Mt 21, 9),<br />
di apportatore del «Regno» sperato<br />
(cfr Mc 11, 10).<br />
E c’era stata l’ora fatidica e decisiva<br />
del suo processo davanti al sinedrio,<br />
quando risponde affermativamente alla<br />
domanda se egli sia «il Cristo, il Figlio<br />
del Benedetto»: «Io lo sono» (cfr Mc 14,<br />
61-62).<br />
Perciò la comunità dei discepoli, che<br />
si ricostituisce dopo la Pentecoste, non<br />
ha dubbi nell’accogliere e predicare la<br />
dignità messianica come parte integrante<br />
della identità stessa del suo Maestro.<br />
Come testimoniano gli Atti, «ogni<br />
giorno nel tempio e a casa non cessavano<br />
di insegnare e di portare il lieto annunzio<br />
che Gesù è il Cristo» (At 5, 42:<br />
euanghelizòmenoi ton Christon Iesoùn).<br />
Un messianismo «pasquale»<br />
Questa nuova e ormai irrinunciabile<br />
«coscienza messianica» nasce nei discepoli<br />
ed è sorretta dalla vittoria gloriosa<br />
del Nazareno e dalla conseguente certezza<br />
— come essi affermano con franchezza<br />
davanti alle autorità e ai maggiorenti<br />
del loro popolo — che «Dio lo ha<br />
innalzato con la sua destra facendolo capo<br />
e salvatore, per dare a Israele la grazia<br />
della conversione e il perdono dei<br />
peccati» (At 5, 31); conversione e perdono<br />
che sono visti ormai come i veri beni<br />
che ci si deve attendere dal Messia.<br />
«Signore» e «Messia» («Cristo») appaiono<br />
ambedue nella catechesi «appellativi<br />
pasquali», illuminati e giustificati<br />
dalla novità della risurrezione. Si spiega<br />
quindi come da Pietro, nel discorso del<br />
giorno di Pentecoste, siano citati insieme<br />
e in connessione: «Sappia con certezza<br />
tutta la casa d’Israele che Dio ha<br />
costituito Signore e Messia (kýrion kài<br />
Christòn) quel Gesù che voi avete crocifisso»<br />
(At 2, 36).