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<strong>L'OSSERVATORE</strong> IBRI<br />
PAGINA<br />
10 .<br />
<strong>L'OSSERVATORE</strong> <strong>ROMANO</strong> Mercoledì 12 Dicembre 2001<br />
Derek Walcott<br />
Nelle due foto al centro<br />
il mercato della frutta<br />
a S. Lucia e un villaggio<br />
di pescatori poco fuori la città<br />
La ristampa di «Prima luce» di Derek Walcott<br />
Un magma poetico<br />
che rinnova antiche risonanze<br />
MARCO TESTI<br />
La recentissima ristampa, a quattro<br />
anni dalla prima edizione, del poema<br />
Prima luce di Derek Walcott, uscito nel<br />
1997 (Adelphi, 2001, pp. 165, L. 32.000),<br />
ci offre l’occasione di parlare di un poeta<br />
e di un’istituzione, il Nobel per la letteratura.<br />
Nel senso che la geopolitica<br />
del premio propone una effimera fama<br />
all’autore prescelto per poi lasciare che<br />
l’anonimato — a parte la maggior o minor<br />
gloria casalinga — ricopra la persona<br />
e le opere dello scrittore.<br />
La figura di Walcott, Nobel 1992 per<br />
la letteratura, sembra avere più possibilità<br />
di persistenza a livello internazionale,<br />
anche se in Italia, nonostante i convegni<br />
e la puntuale edizione delle sue<br />
opere, la già scarsa disponibilità del<br />
mercato ne ha già consumato la sottile<br />
striscia di notorietà.<br />
L’esposizione e la sua durata nel regno<br />
dei media di Walcott sono dovute<br />
soprattutto al cosmopolitismo della sua<br />
poesia e della sua figura: nato a St. Lucia,<br />
una delle isole Sopravvento delle Indie<br />
Occidentali nel 1931, laureato al locale<br />
University College, ha studiato il<br />
teatro americano, ha fondato il Trinidad<br />
Theather Workshop e ha collaborato<br />
con alcune prestigiose produzioni teatrali<br />
americane.<br />
La sua scrittura ha alla base un inglese<br />
colto ma è anche nutrita da un continuo<br />
riferimento ai nomi dei suoi luoghi<br />
e a quelli da lui visitati nei suoi viaggi.<br />
Davvero, leggendo o rileggendo Prima<br />
luce, si ha la sensazione di un respiro<br />
cosmico, pur legato al cordone ombelicale<br />
della terra d’origine, di cui<br />
emergono musiche, danze, natura, mare,<br />
nomi. Soprattutto i nomi delle piante<br />
locali, Allamanda, Igname, Casuarina,<br />
Xerantemo, ottengono un effetto straniante,<br />
perché improvvisamente interrompono<br />
l’adagio di una melodia colta e<br />
raffinata, che sembra a volte provenire<br />
dai cottages delle nebbiose terre d’Inghilterra.<br />
Sicuramente inserita in una<br />
tradizione composta e attenta al canone<br />
poetico occidentale, tuttavia il verso di<br />
Walcott risponde ad un’eco meno familiare,<br />
si sente insomma che la dissonanza<br />
nasce da una voluta contaminazione<br />
tra sprezzatura anglosassone e la solarità,<br />
il turgore delle isole Sottovento.<br />
Il pregio della poesia di Walcott è<br />
proprio questo: non è possibile identificarla<br />
seduta stante con una matrice etnica,<br />
con una negritudine, o con una<br />
settentrionalità; la sua struttura profonda<br />
è fatta di magma poetico, che rinnova<br />
e trasmuta risonanze, che dicono<br />
Omero, Dante, gli elisabettiani, i metafisici,<br />
Eliot, le Scritture, ma anche Baudelaire,<br />
Rimbaud, Valéry, alcuni italiani<br />
come Montale, e molto altro.<br />
Non è possibile invece porre questo<br />
poema sulla scia di Lucrezio, come talu-<br />
di una poesia «epica», innervata<br />
cioè dall’appartenenza<br />
non ad una precisa<br />
identità nazionale, bensì ad<br />
una terra, ad una matrice<br />
che riecheggia l’indifferenziato<br />
della natura, la felicità<br />
del camminare tra gli uomini<br />
e il ricordo.<br />
Il grande nucleo della<br />
madre-memoria, dunque,<br />
innervato da una precisa disposizione<br />
degli spazi che<br />
denuncia la cultura teatrale<br />
di Walcott e la sua capacità<br />
di disporre la vita nei luo-<br />
ghi, anche se questi non ap-<br />
bita, non staccata, non occultata, dal sì<br />
alla esistenza.<br />
Se appare la nostalgia rimbaudiana<br />
del viaggio di fronte alla pozzanghera<br />
della città («Quel bimbo/ accovacciato/<br />
sul canale di scolo di Rimbaud»), se si<br />
assiste alla nostalgia d’altrove che ha insinuato<br />
Baudelaire dentro le strade urbane,<br />
c’è anche il contro-tono del messaggio<br />
posato, ma anch’esso coraggioso,<br />
del piccolo seme che fruttifica: «Non è<br />
niente, ma è questo niente che (...) fa<br />
grande».<br />
La madre appare come ricordo nella<br />
natura, la madre che ora è materia inerte<br />
è insieme mito della nascita, della<br />
creazione e del viaggio in attesa del ritorno.<br />
È insieme ricerca e quiete, questo<br />
poema materno che diviene moderna<br />
epica, la sola possibile, nell’azione e nell’attesa,<br />
umane e cosmiche.<br />
Ma vi è anche una vera e propria richiesta<br />
di senso, una domanda che punta<br />
in alto, che nomina espressamente il<br />
divino e lo cala genialmente non solo<br />
nei loci deputati e nelle doviziose citazioni,<br />
ma nelle case, nei sonni inquieti,<br />
nella preghiera di uomo di ogni giorno.<br />
L’assenza-presenza del divino è in<br />
questo poema riconoscimento della<br />
strutturazione dentro l’uomo dell’Altro,<br />
non per paura del nulla, ma per una<br />
speranza inchiodata nella sua stessa<br />
carne.<br />
Dice la verità la poesia, non solo per<br />
un riconoscimento auto-referenziale,<br />
sembra dire Walcott, ma perché essa è<br />
profetica, fa esistere ciò che non è più<br />
qui nel momento stesso dell’assenza e<br />
del rimpianto: «La poesia resta tradimento<br />
perché è verità». Ed il tradimento<br />
della poesia del veggente-profeta,<br />
sembra dire Walcott, è quello di vedere,<br />
di non accontentarsi del volo rasente alla<br />
terra, ma cercare il significato più inquietante,<br />
lo scandalo per gli altri uomini,<br />
l’anticipazione di ciò che sarà nella<br />
verità del mondo stesso, che, lo diceva<br />
Baudelaire, è selva carica di simboli, se<br />
si ha la forza per sostenerne il meduseo<br />
sguardo.<br />
Ecco il senso profondo dell’Omero, (il<br />
paragone è stato fatto da Josif Brodskij)<br />
moderno che cerca e basta. Cerca il fare<br />
largo alla vita e insieme insegue l’accettazione<br />
della morte, cerca il cielo e la<br />
terra, l’alto e il basso, l’umido e l’asciutto:<br />
la molteplicità, in breve. Il discorso<br />
rimane strettamente legato ad un ritmo<br />
aperto e insieme serrato, asciutto, vincolato<br />
alla tradizione ma anche al proprio<br />
tempo e alla propria cultura. Un caso di<br />
classico moderno, sia detto senza forzature<br />
e senza fretta celebrativa, semmai<br />
con la consapevolezza che il decentramento<br />
culturale ha in Walcott la sua cifra<br />
positiva di ritorno epico al mondo e<br />
alla sua complessità, e non di assorbimento<br />
monoculturale.<br />
«Introduzione a Unamuno» di Armando Savignano<br />
Il complesso itinerario intellettuale del pensatore basco<br />
PIETRO ADDANTE<br />
«Introduzione a Unamuno» di Armando Savignano (<br />
Laterza, Bari 2001, pp. 202, Lire 18.000) inizia con un<br />
interrogativo come invito agli studiosi a non chiudere<br />
in uno schema culturale riduttivo il pensiero del filosofo<br />
spagnolo: «Ma chi era davvero Unamuno? È possibile<br />
avere un'idea sufficientemente organica e unitaria<br />
del suo pensiero?» (p. 3).<br />
L'interrogativo nasce dal fatto che Unamuno è stato<br />
visto come polemista, agonista, contemplativo, protestante,<br />
cattolico, ateo, conservatore, progressista,<br />
anarchico, rivoluzionario. È talmente variegato il<br />
cammino umano e filosofico del Nostro da indurre in<br />
errore gli studiosi quando privilegiano uno dei suoi<br />
aspetti culturali, imprigionando così, in una tappa, il<br />
complesso itinerario esistenziale e intellettuale del<br />
pensatore basco.<br />
È proprio Unamuno a chiedere di non essere «incasellato»,<br />
quando già nel 1910 scrive nel saggio Mi religion:<br />
«Vorrebbero cacciarmi in qualche vano del casellario<br />
in cui collocano gli spiriti e poter dire di me:<br />
è luterano, calvinista, cattolico, ateo, razionalista,<br />
mistico o qualunque altra di queste parole. E io non<br />
voglio lasciarmi incasellare, perché io, Miguel de<br />
Unamuno, come del resto qualunque uomo che aspiri<br />
a una pienezza di coscienza, formo da me una specie<br />
unica».<br />
Diverse sono le fasi della sua vita e del suo pensiero,<br />
variegato il suo dinamismo culturale, molte le sue<br />
istanze di carattere antropologico, religioso, etico, politico<br />
sotto l'influsso di pensatori spagnoli, di filosofi<br />
moderni, Descartes, Kant, Fichte, Hegel, dei circoli liberali<br />
del positivismo.<br />
Tuttavia, Unamuno, tra crisi religiosa ed esistenziale<br />
(1897), tra attenzione al tema dell'agonismo tra fede<br />
e ragione e a quello del sentimento tragico della vita<br />
(l'idealismo etico, 1904-1913), tra l'interesse al tema<br />
dell'identità personale, l'inquietudine della «generazione<br />
del '98» e la tragedia esistenziale caratterizzata dal<br />
mal du siècle, vive, in un modo profondo e angosciante,<br />
la situazione della condizione umana e sente vivamente<br />
il «vuoto esistenziale, in nome dell'azione», e il<br />
sentimento tragico della vita. Il problema di Dio<br />
scompare razionalmente, ma non nel cuore dell'uomo.<br />
Il Dio di Unamuno è il «Dio cordiale», non quello<br />
della ragione: «Negare Dio? No, e mille volte no, —<br />
afferma nella lettera a Juan Solis —. Sono credente<br />
come chiunque altro, sono in teoria credente ed in<br />
pratica perfino mistico...». La fede è «un fatto, è il<br />
pieno riconoscimento di un principio senza necessità<br />
di prove, è credere ciò che non vediamo; la fede è un<br />
ni hanno fatto. Non vi è qui l’affermazione<br />
perentoria della meccanicità cosmica;<br />
non si assiste alla contestazione<br />
degli dèi falsi e bugiardi attraverso la sovrapposizione<br />
del naturalismo, qualsiasi<br />
forma esso assuma qui.<br />
In Prima luce regna lo stupore dell’alba,<br />
motivo certamente antico, ma che<br />
qui è assorbito da spazi e dai tempi non<br />
europei, le coordinate dell’isola, del luogo<br />
nel mare. Motivo che fa da contraltare<br />
a quello che dovrebbe essere centrale,<br />
della morte della madre, e che per<br />
grazia di questa disposizione luminosa<br />
assume le cadenze del viaggio nel tempo,<br />
di una ricerca nell’oggi delle radici e<br />
del mito elementare.<br />
Ma c’è anche il grande tema della Ricerca,<br />
del dopo, dello sguardo altrove<br />
che non appare mai intrusivo, artificiosamente<br />
aggiunto, ma che è invece connaturato<br />
al ritmo, alla sostanza classica<br />
fatto che scaturisce dal sentimento<br />
onde colmare il vuoto della ragione»<br />
(p. 17).<br />
Umanismo e misticismo vanno<br />
visti in sintonia per capire la storia<br />
vera delle vicende storiche,<br />
umane, personali, per scendere<br />
veramente nell'essenza del vissuto<br />
e per «giungere alla roccia viva<br />
dello spirito».<br />
Non è nella scienza, ma nella<br />
vita mistica che l'anima castigliana<br />
— quindi qualunque persona<br />
— arriva al centro, a Dio.<br />
Nella vita mistica la persona<br />
entra «nella conoscenza introspettiva<br />
di sé chiudendo gli occhi al<br />
sensibile ed anche all'intelligibile,<br />
a tutto ciò che può entrare con<br />
chiarezza nell'intelletto, per arrivare<br />
alla nuda essenza e al centro<br />
dell'anima che è Dio e unirsi,<br />
con contatti sostanziali, alla Sapienza<br />
ed all'Amore divini» (cit.<br />
p. 28).<br />
paiono presenze naturalisticamente intese,<br />
ma create dalla compenetrazione<br />
dentro-fuori, occhio interiore e scenario,<br />
realtà che vive solo quando tocca la percezione<br />
del soggetto.<br />
Ecco perché non si può parlare di Lucrezio,<br />
o per lo meno non lo si può mettere<br />
a capo della complessa poetica di<br />
questo libro: perché qui la molteplicità<br />
della materia è attraversata da — sembra<br />
una citazione di Eliot — «una domanda<br />
più vasta», da una apertura sul<br />
perché che non rimane pianto sospeso<br />
sul nulla e sulla speranza, non diviene<br />
ricerca del nuovo poema-elenco delle<br />
forme materiali e dei loro meccanismi,<br />
ma attività, accettazione, sguardo,<br />
visione.<br />
Se c’è la tentazione materialistica, che<br />
gli viene probabilmente dal Valéry del<br />
Cimitero marino («La città di tombe in<br />
riva al mare si estende»), questa è assor-<br />
La salvezza dell'uomo singolo è anche salvezza<br />
di tutti gli uomini per il concetto di altruismo e di<br />
solidarietà, avendo tutti la consapevolezza della finitezza.<br />
È da questa finitezza della persona umana che scaturisce<br />
la «fame» di Dio e «l'eternità della coscienza».<br />
Ed è proprio l'ansia di immortalità che sta alla base<br />
dell'etica unamuniana. Sul nesso inscindibile tra fame<br />
di Dio ed eternità della coscienza il filosofo scrive:<br />
«L'anelito dell'immortalità dell'anima, della permanenza<br />
in una forma o nell'altra, della nostra coscienza<br />
personale ed individuale è sia l'essenza della religione<br />
che l'anelito dell'esistenza di Dio. Non si dà l'una<br />
senza l'altro, e ciò perché fondamentalmente si<br />
tratta di una sola e medesima cosa» (p. 84).<br />
Nasce così il personalismo unamuniano che ha<br />
questi pilastri: l'imperativo etico di eternità che implica<br />
«la volontà di ricercare la felicità», l'immortalità<br />
dell'anima come postulato trascendente, la religione<br />
come fondamento dell'etica, l'amore-compassione che<br />
dà spazio all'altro, il lavoro posto al servizio dello spirito,<br />
cioè l'amore per l'opera fatta bene, con impegno<br />
e responsabilità, «per amore di Dio, ovvero per amore<br />
della nostra eternità» (pp. 86-87).<br />
La persona che esce dall'etica «eroica» di Unamuno,<br />
etica che ha valenze civili, risvolti socio-politici,<br />
aspetti di solidarietà fondati sulla «redenzione colletti-<br />
va» poiché, egli dice, la «colpa è<br />
collettiva», deve essere sorretta<br />
da questi principi:<br />
— «Lottare con se stessi e contro<br />
l'ambiente per guadagnare il<br />
cielo...».<br />
— «Praticare una morale basata<br />
sull'azione».<br />
— «Vivere la morale come conflitto<br />
interiore... Tale etica di<br />
guerra è alla base della stessa filosofia<br />
della storia che, dopo la<br />
crisi, abbandona definitivamente<br />
certe suggestioni hegeliane e marxiste,<br />
in nome della lotta per la<br />
personalità» (p. 87).<br />
Il problema della persona e<br />
della personalità emerge chiaramente<br />
in tutto il volume, il quale,<br />
più che una Introduzione a<br />
Unamuno, è uno studio profondo,<br />
alla luce anche della critica<br />
più recente, su tutti gli aspetti<br />
scintillanti, emergenti dal pensie-<br />
ro del filosofo basco: dalla fede<br />
creatrice al sentimento tragico della vita, ai rapporti<br />
fra filosofia e religione, al mistero della personalità,<br />
con pagine efficaci dedicate alla storia della critica<br />
unamuniana.<br />
Le pagine più significative, e sapientemente più attuali,<br />
sono quelle che Savignano dedica a «Il mistero<br />
della personalità», in cui il personalismo di Unamuno<br />
emerge come la cifra dominante del suo pensare la<br />
persona in senso orizzontale, verso l'altro, e in senso<br />
verticale come «sogno di Dio».<br />
Slancio, volontà, operosità, lotta eroica per la vita<br />
contro tutto ciò che rende vuota, schiaccia ed eclissa<br />
l'esistenza, Dio che parla al cuore: ecco alcuni dei<br />
tanti elementi dell'antropologia unamuniana o, meglio,<br />
del tema del «mistero della personalità».<br />
Scrive Ferrater Mora: «Unamuno lo ripete fino alla<br />
noia: la persona è, fondamentalmente, un sogno: sogno<br />
di Dio, sogno degli altri, sogno di sé. Questi tre<br />
sogni si riassumono in uno: il sogno per eccellenza,<br />
la sostanza con la quale e della quale siamo stati generati.<br />
E così si realizza la persona. Realtà suprema<br />
e, ad un tempo, essenzialmente indigente» (pp. 149-<br />
150).<br />
Unamuno è un pensatore concreto che non accetta<br />
etichette culturali, né una collocazione «in qualche<br />
vano del casellario» (Obras completas, XVI, 119).<br />
Le riduzioni teatrali<br />
de «I Promessi Sposi»<br />
Anne-Christine Faitrop-Porta ha raccolto brani<br />
campione di venti riduzioni teatrali dei Promessi<br />
Sposi, e in un’ampia introduzione ne ha esaminato<br />
i rapporti con il romanzo, avendo constatato<br />
che, mentre il «profluvio di interpretazioni» ispirate<br />
dall’opera manzoniana ha destato «un certo<br />
interesse nella critica», le riduzioni teatrali «restano<br />
ignorate». Una scorsa ai frammenti che<br />
A.C.<br />
Faitrop-Porta<br />
I Promessi<br />
Sposi.<br />
Riduzioni<br />
teatrali<br />
Olschki<br />
l’Autrice ne trascrive porterebbe, in verità, ad una giustificazione di siffatto<br />
atteggiamento critico: nessuna delle riduzioni, neppure quelle di Giovanni<br />
Testori, presenta intrinseche virtù teatrali e un degno rapporto con il romanzo,<br />
tali da suscitare interessi critici oltre quelli storici. Le diligenti considerazioni<br />
che l’Autrice propone in merito ai caratteri teatrali del romanzo<br />
e alle scelte operate dai riduttori nei confronti degli episodi e dei protagonisti<br />
e nei tentativi di giunte creative personali, possono valere ad attenuare<br />
la drasticità ma non la sostanza di questo giudizio negativo; anche perché<br />
le proposizioni dell’indagine critica introduttiva talora appaiono condizionate<br />
dall’amore della tesi, se non anche influenzate da una modernità di<br />
lettura del testo manzoniano incline al liberismo interpretativo come perenne<br />
ri-creazione dell’opera d’arte. A giustificazione dei numerosi tentativi<br />
teatrali, la Faitrop-Porta crede di poter affermare la presenza nella poetica<br />
manzoniana di un diffuso gusto della rappresentazione teatrale. Si tratta<br />
d’una perdonabile imprudenza, causata dall’insistenza delle «riduzioni» che<br />
l’Autrice. ha incontrata nella sua indagine, oltre che dalla forza realistica e<br />
rappresentativa della narrazione manzoniana: virtù vigente nei capolavori<br />
di tutti i tempi e generi, che il Manzoni incrementò da una redazione all’altra<br />
del suo romanzo, e che in sostanza s’incardina in una poetica come la<br />
sua, orientata al «vero per soggetto», «l’utile per iscopo», «l’interessante<br />
per mezzo». E qui è forse utile ricordare il suggestivo esempio d’un altro<br />
grande testo, la Divina Commedia, in cui l’efficacia significativa di atti e<br />
condizioni degli spiriti non autorizza confusioni con la teatralità. L’Introduzione<br />
offre puntuali notazioni sul dare e l’avere dei «riduttori»; ma l’Antologia,<br />
raccogliendo «riduzioni» di venti Autori, non può presentarne un congruo<br />
numero di scene, rappresentative dei criteri e del gusto di ognuno di<br />
essi. È vero che la maggior parte delle opere rimane di basso livello a<br />
fronte del capolavoro manzoniano; ma i modesti campioni offerti — una,<br />
due o tre scene, con l’eccezione delle cinque per Testori — costituiscono<br />
un assaggio molto modesto, che lascia il tempo che trova, sia dal punto di<br />
vista filologico che da quello critico. Rimane una funzione documentaria rispetto<br />
alla caratterizzazione che si sviluppa nell’Introduzione, con una sorta<br />
d’inversione di traguardi: l’Introduzione come corpo dell’opera, e l’opera<br />
come testimone dell’Introduzione. Il che non è un inconveniente da denunziare,<br />
in quanto il rapporto tra le due parti rimane positivo, e conferisce al<br />
libro una rispettabile dignità e giustificazione. (fernando salsano)<br />
Anne-Christine Faitrop-Porta, I Promessi Sposi. Riduzioni teatrali, Firenze,<br />
Olschki, 2001, pp.105, Lire 35.000.<br />
Amélie Nothomb<br />
Stupore<br />
e tremori<br />
Voland<br />
Una donna occidentale<br />
nella civiltà del Giappone<br />
Un anno — tanto dura il contratto di lavoro —.<br />
Un grattacielo — e al suo quarantaquattresimo<br />
piano si svolge la storia breve di un «capo di<br />
nessuno» —-. Un ascensore, testimone e simbolo<br />
di una carriera in «ascesa» fulmineamente bruciata<br />
per «momento sbagliato» e successive mirabolanti,<br />
declassanti «discese» all’interno di<br />
un’azienda tokyota con un centinaio di impiegati<br />
e cinque impiegate — dirigente, una sola —. Protagonista di graffianti monologhi<br />
ravvivati da dialoghi detonatori di ulteriori riflessioni sull’inferno<br />
aziendale, una donna, — con franchezza da straniera. È la storia di Amélie,<br />
giovane belga come l’autrice, che agli inizi degli anni Novanta riesce a farsi<br />
assumere dalla ditta Import-Export Yumimoto grazie alla perfetta conoscenza<br />
del giapponese. Quel mondo del lavoro dalla ferrea scala gerarchica le<br />
fa scoprire, del paese che ama, aspetti da narrare tra «stupore e tremori».<br />
Accanto alla profonda umanità ed all’alto senso di rispetto e di apprezzamento<br />
per le effettive competenze del «cervello occidentale» dimostrati da<br />
personaggi come il presidente Haneda o l’impareggiabile Tenshi, la spietata<br />
aridità impersonata dalla dirigente Mori consente un’analitica incursione<br />
nelle contraddizioni a cui la donna giapponese in carriera difficilmente sfugge,<br />
nelle maglie soffocanti di «precetti» e «doveri» imposti dalla mentalità<br />
tradizionale. Sacrificare la vita per il lavoro-carriera, è forse vita? E seppellire<br />
«tutta la vita nel lavoro», come fa la stragrande maggioranza dei nipponici,<br />
non è sinonimo di «dare la vita per niente»? Applicare con zelo assoluto<br />
la regola suprema del lavoro finisce con il rendere lecito affibbiare a<br />
nome proprio di persona un verbo all’infinito come «Tsutomeru», «Lavorare»?<br />
Il «quasi ridere» dell’autrice è riso amaro, fortemente critico. Difficile<br />
darle torto! Tappe, arresti di iniziative, intoppi, sorprese da fronteggiare da<br />
Amélie «cervello occidentale», sono delineati nella briosa consapevolezza<br />
che il «linguaggio è una foresta». Anche in Giappone, dove aspettare l’ascensore<br />
perdendo quel tempo che si potrebbe invece proficuamente mettere<br />
a disposizione dell’azienda, «si chiama sabotaggio: uno dei crimini nipponici<br />
più gravi, tanto odioso che si usa la parola francese, perché bisogna<br />
essere stranieri per concepire una bassezza simile»! Inizio dell’esperienza<br />
lavorativa di Amélie: «... mi chiese se amavo le sfide. Era chiaro che non<br />
avevo il diritto di rispondere negativamente». L’io narrante si trova stretto<br />
nel dilemma di presentare le dimissioni o di accettare ordini paradossali<br />
come fingere «di non capire più il giapponese»: la «diversità» chiamata in<br />
causa motiva il «mobbing», condannato sul fil di spada della più feroce autoironia.<br />
Pragmatismo, prendere iniziative senza chiedere il parere di nessuno<br />
sono stigmatizzati in un sistema dove è ancora radicata l’idea che<br />
«l’esistenza è l’azienda... E fuori dell’azienda... niente che meriti il nome di<br />
vita». All’attento sismografo della scrittura della giovane autrice, nata a Kobe<br />
da famiglia di diplomatici ed affermata scrittrice in Francia, concetti come<br />
«incapacità», «inferiorità», «superiorità» vengono messi sotto accusa assumendo<br />
peso ed attualità sconcertanti. Molti lettori nipponici hanno condiviso<br />
il piacere di un testo (tra borborigmi dall’irresistibiIe fascino e colpi di<br />
fioretto tra un «mori» latino opposto a quello giapponese), che pochi di loro<br />
avrebbero il coraggio di scrivere. (irene iarocci)<br />
Amélie Nothomb, «Stupore e tremori», Roma, Voland, 2001, pp. 120,<br />
Lire 18.000.<br />
In Terra Santa sulle «orme»<br />
di un Vangelo rivissuto<br />
«Vagiva nella culla il nuovo millennio / e noi due<br />
in viaggio nel supersonico jet, / l'ultimo pellegrinaggio<br />
con gli occhi / all'acqua rinata nel deserto».<br />
E ancora: «Lui non era qualcuno, mi dicevi /<br />
era Gesù. E il Suo dito, il dito di Dio, / passando,<br />
toccava il tuo che mi teneva / con gli occhi fissi<br />
al Suo martirio (...) Ti immaginai nel gruppo di<br />
Maria / ai piedi del Figlio sul monte, / inchiodati<br />
Cristanziano<br />
Serricchio<br />
Le orme<br />
La Nuova<br />
Agape<br />
ai cuori alle ultime parole / e al capo reclino dalla morte (...)». Questi versi<br />
di Cristanziano Serricchio, raccolti nel libro «Le orme», nascono da un gesto<br />
potente: vedere la propria donna tra le scene della Terra Santa, nei momenti<br />
di un Vangelo rivissuto con partecipazione struggente. Serricchio propone<br />
la propria amata testimone diretta e partecipe della presenza del Salvatore<br />
nella storia dell'uomo. In quelle scene emergono il suo amore e la<br />
sua visione, in una lingua fluida, avvolgente. E dietro quelle parole che richiamano<br />
con gioia, dolore e speranza la nascita, la morte e la resurrezione<br />
di Cristo, urla forte il ricordo, il richiamo incessante proveniente dal più<br />
profondo del suo cuore e che si fa largo andandosi a depositarsi in quello<br />
dei lettori. Raccolti minuziosamente e gelosamente come in un diario personale,<br />
i versi di Serricchio si offrono come una testimonianza di memoria,<br />
di fede dove tutto diventa misura. Così il poeta partecipa alla memoria di<br />
quanto avvenne in Terra Santa attraverso la forma più alta di coinvolgimento<br />
personale, mettendo in scena quel che ha di più caro, offrendo la forza,<br />
il fuoco esterno, la dolcezza della testimonianza del Mistero di Dio. E lo fa<br />
con una semplicità che scava, che attraversa le aride pianure del mondo,<br />
per giungere a toccare le corde del sentimento, del puro e inesauribile<br />
amore. «Sono tornato e da quella sedia / in ombra attendo che tu muova gli<br />
occhi / a guardarmi se annota ancora il cielo / nella finestra di luci e voli<br />
(...) Amore e dolore crescevano / fra eventi di ulivi e spine / ed era il Volto,<br />
la vera pietra / del sepolcro, la preghiera e la luce. / Così l'ombra del tuo<br />
essermi vicina / ora su quella sedia in ombra. (massimiliano porzia)<br />
Cristianziano Serricchio, Le orme, Forlì, La Nuova Agape, 2001, pp. 32,<br />
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