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ERZA T PAGINA .<br />
PAGINA<br />
3 .<br />
ELZEVIRO Un interrogativo sulla «lingua» fiorentina<br />
Dialetto<br />
o vernacolo?<br />
LUIGI M. PERSONÈ<br />
Si domanda anche a Firenze — dico,<br />
anche a Firenze — se esiste un vernacolo<br />
fiorentino. Vernacolo, non dialetto.<br />
La questione presupporrebbe un'origine<br />
ed uno sviluppo rigorosamente scientifico,<br />
filologico. Chi la muove mira però<br />
alla pratica: e alla pratica io mi attengo<br />
anche perché questo non è il luogo per<br />
certi problemi.<br />
Se li affrontassi — come pure mi<br />
sembra di averlo fatto col mio primo<br />
maestro di università, capitatomi per caso,<br />
che fu, a Bologna, il famoso Francesco<br />
Lorenzo Pullé, ordinario di dialettologia<br />
— egli inarcherebbe, come pure<br />
fece uno sterminato numero di anni fa,<br />
le ciglia e mi sciorinerebbe una quantità<br />
impressionante di manuali e di nomi,<br />
per concludere sorridendo che il problema<br />
è di una semplicità assoluta, quasi<br />
un giuoco di bambini. Il mio illustre e<br />
celebre Pullé, complesso e semplice, respira<br />
da un pezzo nei campi Elisi. Mi arrischio<br />
di pensare che da lassù mi esorti,<br />
per il suo metodo riduttivo, a consultare<br />
il vocabolario di Nicola Zingarelli<br />
(Zanichelli Editore), per la voce vernacolo.<br />
Zanichelli, che io ho conosciuto di<br />
persona a Roma, era un pozzo di scienza<br />
ma si adattava ai bisogni della gente<br />
comune. Leggo, dunque, nel suo vocabolario,<br />
anche se per i vari aggiornamenti<br />
della monumentale opera, la voce<br />
in questione non è sua. «Vernacolo: ver'nakolo,<br />
“relativo agli schiavi nati in<br />
casa”, poi “paesano, domestico” da verna<br />
“schiavo nato in casa”. Sinonimo,<br />
dialetto».<br />
Vernacolo, dunque, è sinonimo di dialetto:<br />
ma non equivale a dialetto.<br />
Mi sono proposto di trascurare le ragioni<br />
scientifiche inopportune qui, e di<br />
attenermi alla pratica. La pratica porta<br />
a non parlare di vernacolo per Torino,<br />
per Milano, per Bologna, ecc. Esiste un<br />
dialetto bolognese; e non un vernacolo.<br />
O nessuno nomina il vernacolo. Non si<br />
nomina nemmeno a Venezia e a Napoli.<br />
Le commedie di Carlo Goldoni non sono<br />
in vernacolo veneziano; né quelle di<br />
Eduardo De Filippo sono in vernacolo<br />
napoletano. Ma se qualcuno vuole riconoscerle<br />
come tali, si accomodi. Quelle<br />
di Augusto Novelli e di Ferdinando Paolieri,<br />
anche del cruscante o crischevole<br />
abate Zannoni (fine del Settecento, prima<br />
metà dell'Ottocento). Sì.<br />
O allora? Mantengo la promessa di<br />
non perdermi negli intrighi filologici, a<br />
costo di dare un dispiacere alla scienza.<br />
Vengo al sodo, come si dice. A Torino,<br />
a Milano, ecc. i dialetti risultano, sì e<br />
no, elementi puri e originali o corruzioni,<br />
secondo i vari studi e ragionamenti<br />
sulle lingue dovute ad antichissimi idiomi<br />
alterati a poco a poco delle varie sovrapposizioni<br />
di gente sopravvenuta. Insomma,<br />
le predominazioni straniere, le<br />
immigrazioni avrebbero avuto la loro influenza<br />
anche sul primo ceppo del linguaggio.<br />
Per gli avvenimenti storici e sociali,<br />
col costituirsi della nazione, si venne<br />
affermando la lingua cosiddetta italiana.<br />
Ne risentì, nonostante ogni naturale<br />
o artificiosa resistenza, di quei vari<br />
contributi. Se non altro, nel modo di<br />
pronunciare. L'italiano che si pronuncia<br />
a Torino è diverso — sempre nella pronuncia<br />
oltre che nella struttura — da<br />
quello di Milano e di Bologna. Un bolognese<br />
che parla in italiano, ad avere<br />
orecchio fino e magari finissimo, si intuisce<br />
che è un bolognese.<br />
Per Venezia e per Napoli, il discorso è<br />
diverso e complesso.<br />
Quelle — di Venezia e di Napoli —<br />
sono lingue che, pur con tutte le alterazioni,<br />
hanno resistito. E poi è toccata loro<br />
la fortuna di un Goldoni e di un Di<br />
Giacomo e di un De Filippo che ne hanno<br />
consacrato la dignità linguistica. Dialetti<br />
che sono lingue: non vernacolo.<br />
A Firenze, il problema è diverso. A Firenze,<br />
la lingua originaria, vicinissima al<br />
latino, non ha subito alterazioni profonde,<br />
anche perché non vi hanno influito<br />
Appuntamenti<br />
culturali<br />
Chieti, 12 dicembre<br />
Ilnuovo Anno Accademico<br />
della SSIS<br />
Nell'auditorium del Rettorato<br />
dell'Università «G. D'Annunzio»,<br />
mercoledì 12, alle ore 10, si<br />
svolgerà l'inaugurazione dell'Anno<br />
Accademico della Scuola<br />
di Specializzazione all'Insegnamento<br />
Secondario (SSIS)-Abruzzo<br />
che verrà intitolata a Raffaele<br />
Laporta.<br />
Pisa, 15 dicembre<br />
La riapertura della Torre<br />
Sabato 15, alle ore 10.30, all'interno<br />
della Torre, avrà luogo<br />
una conferenza stampa in occasione<br />
della riapertura guidata al<br />
pubblico dell'edificio. Seguirà<br />
una visita dei giornalisti.<br />
dominazioni straniere. I Lorena, durati<br />
per un tempo relativamente breve, non<br />
vi hanno apportato danni in nulla. In<br />
nulla: non solo nella lingua. E poi, come<br />
si fa a scalzare una lingua consacrata da<br />
un Dante, da un Machiavelli, da una fittissima<br />
schiera di valentuomini? In Toscana<br />
scrivevano anche artisti come<br />
Benvenuto Cellini, Leonardo e Galileo.<br />
Ci si romperebbe il capo a mettersi contro<br />
quel linguaggio.<br />
Eppure il popolo — sempre indigente<br />
e non influenzato dagli stranieri —, per<br />
certe sue doti naturali e invincibili, riuscì<br />
a storpiare — a storpiare, diciamo<br />
noi — i vocaboli di Dante e di Machiavelli.<br />
Li rese «popolari», con un'espressione<br />
di comodo.<br />
Nacque così il vernacolo: che non si<br />
sa fino a qual punto risulti affine al linguaggio<br />
di Dante e di Machiavelli e da<br />
qual punto venga alterato dalla sciatteria<br />
delle persone incolte.<br />
Sennonché questo italiano «popolare»<br />
assume forme pittoresche, in rapporto a<br />
certo sentire e a certa intelligenza del<br />
popolo. Quella sensibilità e quella mentalità<br />
produssero, per cavarcela rapidamente,<br />
forme caratteristiche da tenere<br />
in considerazione. (Fra parentesi, il vernacolo<br />
fiorentino, a differenza dei dialetti<br />
veri e propri, si intende, più o meno<br />
dovunque, dalle Alpi al Lilibeo. A Firenze<br />
invece è più facile intendere un tedesco<br />
o un francese che un milanese o un<br />
torinese che parlano nel loro stretto dialetto).<br />
O perché non si dovrebbero scrivere<br />
opere addirittura in vernacolo, nel<br />
linguaggio usato dal popolo o popolino?<br />
Qui esisteva — esiste ancora, ma è<br />
tutt'altra cosa — un quartiere, una zona<br />
prevalentemente popolare negli usi, nei<br />
costumi e nel linguaggio. Si chiama San<br />
Frediano. Perché non ispirarsi a San<br />
Frediano, come al concentrato: ma vari<br />
San Frediano, singoli, esistono (o esistevano)<br />
qua e là: soprattutto nel rione di<br />
Santa Croce dove si parla (o si parlava)<br />
con un'altra intonazione, anche con altri<br />
vocaboli, con un linguaggio che non è<br />
più quello di Dante e di Machiavelli; o<br />
lo è fin troppo. A questo punto mi ci<br />
vorrebbero spazio e tempo per spiegare<br />
l'apparente stranezza.<br />
Era più lingua il vernacolo o viceversa?<br />
Era più vicino a Dante la gente colta<br />
o quella del popolo incolto?<br />
Alessandro Manzoni direbbe, come<br />
pur disse a proposito di un certo argomento,<br />
«è una gran questione».<br />
Lasciamo perdere. Certo, il vernacolo<br />
(italiano storpiato) convisse con la lingua<br />
italiana. Convisse. Ora non più. Si è<br />
rimasti in pochi a parlare in vernacolo.<br />
Gli sviluppi sociali, la modernità, le immigrazioni,<br />
il turismo hanno avuto la loro<br />
parte. In San Frediano ora si parla<br />
come in via Tornabuoni, la più elegante<br />
della città. I giovani ignorano il pittoresco<br />
vernacolo. I loro padri, che magari<br />
non saranno fiorentini veraci, non lo<br />
parlano.<br />
Ma un teatro in vernacolo ha fatto in<br />
tempo a nascere. Esso mi ha indotto a<br />
scrivere questo articolo. Non ne indago<br />
ora l'origine che risale, nientemeno, al<br />
Buonarroti il Giovane, e all'Abate Zannoni<br />
cui ho appena accennato. Mi riferisco<br />
ora ad Augusto Novelli (fine Ottocento-primo<br />
Novecento), interprete della<br />
piccola borghesia; a Ferdinando Paolieri<br />
e a Giulio Bucciolini, voci della campagna;<br />
a Bruno Carbocci, a Nando Vitali,<br />
a Emilio Caglieri e ad altri, sceneggiatori<br />
di episodi del popolo in genere. Tutti<br />
autori studiati e ristudiati anche da me<br />
che, nel 1925, stesi il primo saggio critico<br />
sul teatro in vernacolo fiorentino.<br />
Ma ora ne scoppia una novità: con i<br />
tre volumi di commedie in vernacolo<br />
che risentono poco o punto delle precedenti.<br />
Son dovuti di un'attrice fiorentina,<br />
scomparsa alcuni anni fa Dory Cei.<br />
Credo — non si può affermare nulla in<br />
assoluto — che sia l'unica attrice-autrice<br />
di commedie importanti e non di effimero<br />
consumo. Il suo teatro si intitola Il<br />
teatro che diverte (Lalli editore, Poggibonsi).<br />
Non è un titolo di maniera. Corrisponde<br />
rigorosamente al contenuto<br />
dell'opera. C'è di tutto: dalla realtà spicciola<br />
a quella che si complica nel «giallo»,<br />
fino al problema, nuovissimo, della<br />
droga.<br />
Sentimento e intelligenza e saggezza.<br />
Etica ed estetica.<br />
L'originalità essenziale dell'opera della<br />
Cei in che cosa consiste?<br />
Risponderò semplicemente: nell'originale<br />
natura dell'autrice.<br />
La signora Dory cominciò da attrice<br />
— attrice di tutto rispetto —, e improvvisamente,<br />
mentre recitava nella compagnia<br />
di Peppino De Filippo in America si<br />
scoprì regista. Il suo bernoccolo registico<br />
la portò a vedere il mondo da regista,<br />
come spettacolo. Fu la sua fortuna,<br />
di artista e di inventrice.<br />
Lo spettacolo del mondo nel suo intimo<br />
risultò lo stimolo, il motivo, l'argomento<br />
delle sue commedie.<br />
Ci prese tanto gusto che riadattò registicamente<br />
anche opere antiche, da<br />
Plauto all'Aretino, alla pochade di Hennequin.<br />
Un caso che va studiato e meditato:<br />
non solo in rapporto al teatro in vernacolo<br />
fiorentino ma al teatro italiano.<br />
Non è questo il luogo.<br />
Dory Cei ha scritto anche commedie<br />
in lingua. Una bellissima, si intitola La<br />
signorina Stella.<br />
Un'attrice e autrice sarebbe un «caso<br />
anche per il teatro italiano.<br />
<strong>L'OSSERVATORE</strong> <strong>ROMANO</strong> Mercoledì 12 Dicembre 2001<br />
Opere di Ottone Rosai in una mostra alla Galleria Comunale di Arte Contemporanea di Arezzo<br />
Dalle ombre e dal fitto «sfumato»<br />
alla chiarità delle figure «sciolte nell'aria pura»<br />
GUALTIERO DA VIÀ<br />
Con questa mostra aretina di quaranta<br />
dipinti e altrettanti disegni alla<br />
Galleria Comunale di Arte Contemporanea<br />
— Sala Sant'Ignazio a cura di Luigi<br />
Cavallo (catalogo Museo delle Fate<br />
Edizioni con scritti del curatore, di Giovanni<br />
Faccenda e di Oretta Nicolini) si<br />
rievoca la figura di Ottone Rosai, un<br />
protagonista nello scenario culturale<br />
fiorentino della prima metà del secolo<br />
ventesimo.<br />
Rosai ebbe un temperamento complesso<br />
e contraddittorio: uomo sanguigno<br />
irsuto, eccessivo, becero, attaccabrighe,<br />
polemico all'estremo, libero nel<br />
linguaggio del basso popolo ma anche,<br />
per quel guazzabuglio che è il cuore<br />
umano, generoso e capace di compassione:<br />
«Io voglio scoprire l'anima della<br />
mia creatura, il suo viso interno, il suo<br />
dramma, essere quella santità di luce e<br />
di spazio in cui si esala il suo grido».<br />
E ancora: «Cerco di ritrovare in me<br />
quell'amore che ho sempre portato per<br />
certe creature destinate a vivere di nascosto<br />
alla stessa vita».<br />
All'uomo corrispondeva l'artista. L'uno<br />
e l'altro vennero accolti per affinità<br />
di sentimenti dagli scrittori cattolici del<br />
«Frontespizio»: Carlo Betocchi Nicola<br />
Lisi, Piero Bargellini e si guadagnarono<br />
l'amicizia di quel cristiano a ventiquattro<br />
carati che fu Domenico Giulitti.<br />
Le sue umili origini e la sua partecipazione<br />
solidale lo condussero ad immedesimarsi<br />
con le grame esistenze dei<br />
poveri senza alcun peso sociale: cantastorie,<br />
venditori ambulanti, vagabondi<br />
operai schiavi del lavoro che compiono<br />
modelli veduti sulle panchine, nei caffeucci<br />
e nelle osterie d'Oltrarno e per i<br />
quali erano pronti il suo taccuino e la<br />
sua matita. Le loro presenze attiravano<br />
la sua attenzione come recita con rara<br />
Il libro «Alice» di Salvatore Mannuzzu<br />
incisività la fragrante prosa realistica<br />
di Romano Bilenchi descrivendo il modo<br />
in cui nasceva il suo impulso a disegnare<br />
questa gente.<br />
L'orizzonte tematico di Rosai è limitato<br />
ma lo compensa la concentrazione<br />
espressiva: fermo il disegno, denso il<br />
colore, armoniosa negli spazi la composizione.<br />
È la sua una valida fiorentinità<br />
discendente dai Maestri del primo Rinascimento.<br />
Perciò rimase saldo contro<br />
gli eccessi di un prevaricante Futurismo<br />
al cui clima tuttavia non poteva<br />
sottrarsi. L'impatto vi fu.<br />
Lo vediamo passare da una certa naïveté<br />
di disegni e dipinti con gli omìni<br />
rigidi al pari di burattini, il cavalluccio,<br />
il carrettino, gli alberelli giocattolo<br />
alle immagini stipate e ingorgate di elementi<br />
figurativi connessi e intersiati fra<br />
di loro con un senso di travaglio e sofferenza<br />
a scapito della lucidità. Ma l'ineliminabile<br />
distinta volumetria legata<br />
a quei Maestri viene fuori vittoriosa. In<br />
Bottiglia e bicchiere (1920) la prospettiva<br />
sghemba parla di cubismo ma si<br />
combina con la riemersa corposa struttura<br />
degli oggetti.<br />
Non vi fu per Rosai un esplicito ritorno<br />
all'ordine ma soltanto la fedeltà<br />
ad un tradizione figurativa e ad un'umanità<br />
che aveva eletto come suo mondo<br />
con comprensione non disgiunta talvolta<br />
da ironia: dai fidanzati ai filosofi<br />
agli avventori al banco o seduti ad un<br />
tavolo di modesti locali o radunati sotto<br />
una pergola.<br />
Ma l'architettura sottoposta nelle scene<br />
o libera nelle vedute è quasi sempre<br />
presente in vari aspetti. Sono le quinte<br />
degli anonimi edifici che stringono Via<br />
Toscanella dove le popolane che s'incontrano<br />
hanno la monumentale solennità<br />
delle figure di Masaccio. Sono gli<br />
«Cortona», 1954 intonaci delle case coloniche toscane<br />
sormontate dalla torre al centro di paesaggi<br />
compatti, circondate dalla soffice<br />
corona di cespugli e cipressi che le sigillano.<br />
Durante gli anni '30 e '40 l'impianto<br />
dei dipinti sembra ammorbidirsi e come<br />
fluidificarsi.<br />
Gli anni '50 segnano un autentico<br />
rinnovamento con una grande apertura<br />
alla luce: spendono colori, i contorni si<br />
fanno nitidi e affilati. Le ombre e il fitto<br />
sfumato che si addensavano sui dipinti<br />
testimoni di un travaglio interiore,<br />
di un aduggiante crepuscolo dell'anima<br />
appartenevano ormai al passato.<br />
Queste opere s'illuminano forse per<br />
una raggiunta o attesa serenità. L'immagine<br />
acquista una chiarità mattinale,<br />
le figure si stagliano nitide nell'aria<br />
pura. Rosai perfino indulge alla grazia<br />
«Guerra + rancio (Fronte)», 1916<br />
ra può balzare protagonista (Cortona,<br />
1954).<br />
«La verità è nel disegno»; un fiorentino<br />
non poteva dire altrimenti. Gli era<br />
facile il trasporto sul foglio all'impronta<br />
di ciò che vedeva per una innata<br />
manualità. Le linee sono essenziali, i<br />
chiaroscuri magri, grafici; «il segno è<br />
denso, energico e rivela a meraviglia<br />
quale aspra e ruvida violenza costruttiva,<br />
che non elide il più fine senso pittorico,<br />
viva e palpiti sotto le apparenze<br />
ingenue e popolaresche della tecnica<br />
pittorica di Rosai» (Sironi).<br />
Dalla mostra emerge una ricchezza<br />
di espressioni: dalle sagome lineari dei<br />
soldati (1917) alla vigorosa trama dei<br />
ritratti e a certi studi di contratta sintesi<br />
plastica che richiamano Giotto: uno<br />
dei fiori (I giaggioli, 1953). L'architettu- stigma immutabile nel tempo.<br />
Le riflessioni morali e religiose di un «ricercatore della verità»<br />
FRANCESCO LICINIO GALATI<br />
«Colline fiorentine<br />
(Alberi in fiore)», 1932<br />
«Bottiglia e bicchiere<br />
(Bicchiere e tovagliolo;<br />
Coperto e bicchiere)», 1919<br />
«Ricercatore della verità»: questi è Salvatore Mannuzzu,<br />
giudice — in magistratura per ventun anni — e<br />
scrittore — sei romanzi: Procedura (1988), Un morso<br />
di formica (1989), Le ceneri del Montiferro (1994), Il<br />
terzo suono (1995), Il catalogo (2000), Alice (2001);<br />
una raccolta di racconti, La figlia perduta (1992), e<br />
una di poesie, Corpus (1997) — anche se, come egli dichiara<br />
in un'intervista, giudice e scrittore svolgono attività<br />
del tutto diverse.<br />
Di Mannuzzu, narratore sardo — anche se nato (nel<br />
1930) nei pressi di Grosseto, risiede abitualmente a<br />
Sassari —, ci siamo già occupati in due diversi interventi<br />
(v. «L'Osservatore Romano» del 18-19 aprile 1995<br />
e del 19 luglio 2000), ma ci sembra indispensabile insistere<br />
che i suoi libri sono strutturati sulla filigrana del<br />
processo giudiziario nel tentativo di approdare alla verità.<br />
Questo il modulo usato anche per Alice (Einaudi,<br />
2001, pp. 172, L. 26.000) l'ultimo romanzo, così intitolato<br />
dal nome del brigantino francese naufragato il 15<br />
gennaio 1909 presso la penisola di North Beach, sull'Oceano<br />
Pacifico, alla foce del Columbia River.<br />
Il mistero comincia a profilarsi allorché l'io narrante<br />
Piero, stupito di vedere la foto del relitto sul tavolo di<br />
Lula, sua compagna, si pone un'infinità di interrogativi<br />
circa il significato di tale presenza e gli eventuali coinvolgimenti<br />
di persone e cose, che impongono necessariamente<br />
riflessioni e indagini che portino alla verità.<br />
Alla verità dell'«Alice», innanzitutto, che tuttavia sarebbe<br />
di relativo interesse se non si presentasse subito<br />
quale paradigma di quella della vita, al cui approdo è<br />
più difficile pervenire, tenuto conto dei molteplici grovigli<br />
dai quali è quasi impossibile districarsi.<br />
Ovvio che per Piero il problema prioritario da affrontare<br />
è la foto del brigantino, con l'enigma delle tre<br />
persone che vi compaiono. Aiutato dalla figlia Chicca,<br />
residente in California la storia del naufragio dell'«Alice»<br />
viene a galla e tutti i misteri dovrebbero essere<br />
chiariti, se non si trattasse di vincere, come s'intuisce<br />
fin dalle prime pagine, le ambiguità dell'esistenza, spigolose<br />
e sfuggenti.<br />
Il protagonista e io narrante del romanzo è un giudice<br />
di cinquant'anni, sposato con Giovanna, «una malata<br />
che non vuole guarire», dalla quale ha avuto una figlia,<br />
Chicca appunto, che ha preferito andarsene a vivere<br />
per proprio conto in California senza dare notizie<br />
di sé. Neppure il giudice, nonostante i suoi principi religiosi,<br />
se l'è sentita di rimanere fedele alla moglie schizofrenica<br />
dalla quale, ricoverata in una Casa Famiglia,<br />
vive separato, preferendo la compagnia di Lula. Ma la<br />
fedeltà non è il suo forte perché, dopo nove anni, at-<br />
«I giaggioli»,<br />
1953<br />
tratto da Candida, una collega più giovane che pretende<br />
da lui un figlio, pensa di separarsi anche da lei, e<br />
studia la maniera più indolore per avvertire il vecchio<br />
genitore delle proprie intenzioni.<br />
In effetti sa che «il discorso non sarebbe stato facile»,<br />
trattandosi di parlare con un padre che «teneva<br />
più di ogni altra cosa all'unità della famiglia», anche se<br />
nella situazione attuale, annota l'io narrante, «di quale<br />
unità si trattasse... sarebbe stato divertente saperlo».<br />
Piero, comunque, è determinato a parlarne al vecchio,<br />
ricoverato da tempo nell'«ospizio S. Pietro», durante la<br />
visita che gli avrebbe fatto la domenica successiva.<br />
Anche quella domenica — Domenica delle Palme —<br />
era atteso dal vecchio genitore sulla «bergère» col «rosario<br />
dai grani di plastica, che teneva nella mano ossuta»,<br />
solo che «invece di parlargli senz'altro di Lula,<br />
Giovanna e Candida», Piero si dilunga nei preliminari,<br />
consentendo al padre di abbandonarsi come sempre al<br />
ricordo dei propri morti, la moglie Miriam e i figli<br />
Laura e Francesco, quest'ultimo soprattutto, considerato<br />
«unico» e «il migliore di tutti».<br />
Non mancano nemmeno le riflessioni sugli aspetti<br />
religiosi e morali dell'esistenza, riflessioni che il figlio si<br />
guarda bene dall'interrompere, perché, secondo la sua<br />
affermazione, «unico scopo delle mie visite domenicali<br />
era permettergli di ripetere quelle cose, mezz'ora la<br />
settimana». Così la visita finisce senza che il discorso<br />
programmato abbia luogo.<br />
Senonché a sconvolgere i piani, interviene un fatto<br />
quanto mai increscioso che fa precipitare Piero in un<br />
mare di dubbi ai quali risulterà impossibile dare definitive<br />
risposte. Forse non è semplice caso, bensì crudele<br />
gioco del destino il fatto che il giudice riesca ad impadronirsi<br />
della «parola d'accesso» al computer portatile<br />
di Lula e a scoprirvi il suo imprevedibile diario che registra<br />
puntualmente i tentativi di seduzione e di violenza<br />
nei suoi confronti da parte del fratello di Piero.<br />
È possibile credere che il «quasi santo» Franz o<br />
Franzi, come lo chiamavano gli amici, avesse una doppia<br />
vita? O non si tratta di un gioco di Lula che, chissà<br />
per quali reconditi fini, ha inserito nel computer storie<br />
così sconcertanti, nella convinzione che qualcuno —<br />
Piero per l'appunto — prima o poi le avrebbe lette?<br />
Qualche indizio? Forse la «parola segreta» di accesso<br />
al computer, «Alice», sulle cui tracce avrebbe potuto<br />
facilmente mettere la foto del brigantino francese naufragato,<br />
che senza plausibile motivo fa bella mostra di<br />
sé sul tavolo di Lula. Ovvio che da questo momento le<br />
ricerche sull'«Alice», anche se gli scambi di messaggi<br />
con Chicca non s'interrompono, passano in secondo<br />
piano, surclassate da quelle riguardanti la personalità<br />
di Franz e, perché no?, di Lula.<br />
«Caffè Bottegone», 1920<br />
Sennonché è la personalità di Piero che si frantuma<br />
mentre trasferisce la sua inchiesta dai misteri del brigantino<br />
a quelli irresolvibili della vita. Soprattutto perché,<br />
per quanto attiene al diario, non riesce a venire a<br />
capo di nulla, nemmeno con l'aiuto del padre, ostinatamente<br />
convinto della straordinaria moralità di<br />
Franz.<br />
Vera poi, la vedova di quest'ultimo, alla quale Piero<br />
riferisce il contenuto del diario, reagisce glacialmente,<br />
secondo il suo stile: «Perché lo dici a me?... Io che<br />
c'entro?». Ancor più enigmatica la sua conclusione:<br />
«Non badare a queste sciocchezze, vere o non vere.<br />
Con Lula state per lasciarvi, mi hai detto: in ogni caso<br />
lei non ne avrebbe colpa. E se non te n'ha parlato, è<br />
solo un suo merito. Mentre Francesco ha già pagato:<br />
sta tranquillo, ha pagato tutto, qualsiasi cosa l'abbia<br />
fatta o no. Te lo ripeto: è in pace».<br />
Né aiuto più valido può venirgli da Candida, la donna<br />
che, dopo aver cercato in tutti i modi di farsi sposare,<br />
l'abbandona per sempre: «Povero Piero. Che non<br />
sei mai cresciuto. Neppure adesso, ...diventando un<br />
vecchierello. Un vecchierello non mio. In tanti anni<br />
dovevi imparare, te lo doveva insegnare qualcuno, almeno,<br />
che il tuo piccolo diritto alla verità ha solo la<br />
forza, il più delle volte, di rimanere insoddisfatto. A<br />
parte che non è un diritto».<br />
E quando Piero, finalmente, prova a chiedere spiegazioni<br />
a Lula, si sente rispondere che non si è mai sognata<br />
di tenere un diario, e tanto meno che c'è stato<br />
qualcosa tra lei e Franz.<br />
Poi il suicidio di Lula, tragico paradigma dell'impossibile<br />
approdo alla verità, nonostante questo sia, secondo<br />
l'affermazione di Candida, un dovere per tutti. In<br />
ogni caso tutto rimane come prima e i dubbi continuano<br />
a tormentare l'esistenza sia di Piero, sia del vecchio<br />
padre che, malgrado le sue profonde convinzioni religiose,<br />
s'interroga sull'effettiva bontà di Dio: «E allora,<br />
se non è buono, viene persino il dubbio che Dio non ci<br />
sia. Come possiamo vivere senza?... Un'unica preghiera<br />
gli rivolgo sempre: d'esserci, per tutti». L'importante<br />
è che non ci si abbandoni al peccato della tristezza<br />
che è il più grave. «Ha ragione san Paolo, è la tristezza<br />
del mondo che genera la morte... E Gesù non vuole<br />
che siamo tristi».<br />
Precisamente perché — questa la conclusione del<br />
vecchio che cita la prima lettera di s. Giovanni — «davanti<br />
a Dio rassicureremo il nostro cuore, qualunque<br />
cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro<br />
cuore».<br />
E ciò malgrado i grovigli e i fallimenti dell'esistenza,<br />
di cui Mannuzzu in questo avvincente romanzo si assume<br />
il compito di adombrare i misteri.