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facio, s<strong>it</strong>uati tra Setta e Santerno (51). Nel marzo 1034 <strong>il</strong> marchese Bonifacio,<br />

Magefredo figlio di Ubaldo e Bonifacio figlio di Enrico avevano cercato un accordo<br />

sui beni di loro spettanza provenienti dall’ered<strong>it</strong>à del defunto Adimaro (52). Magefredo<br />

avrebbe venduto al marchese, e la moglie avrebbe fatto lo stesso, la parte «de sua<br />

porcione quam sibi pertinet de <strong>il</strong>la ered<strong>it</strong>ate in domu sua»; cioè la metà del castello<br />

di Scanello con la metà delle pertinenze e 200 tornature di terra; la metà di tutti i<br />

castelli, chiese, case dominicate e massaricie appartenenti alla «domus cult<strong>il</strong>is» e la<br />

metà di quanto fu del defunto Adimaro «avius suorum» e che allora era tenuto da<br />

Magefredo. Se questi fosse contravvenuto ai patti, avrebbe ceduto al marchese la<br />

propria porzione del castello di Monterenzio (53).<br />

Bonifacio e la moglie Rich<strong>il</strong>de, dal canto loro, avrebbero redatto un atto di vend<strong>it</strong>a<br />

a favore di Magefredo «di quella metà dei beni del defunto Adimaro che, entro<br />

i confini sopra indicati, [erano allora] tenuti da Magefredo, l’altra metà dei quali<br />

[doveva] essere ceduta allo stesso Bonifacio», <strong>il</strong> quale avrebbe venduto anche 200<br />

tornature di terra s<strong>it</strong>uate nel terr<strong>it</strong>orio della pieve di San Pietro in Barbarorum e si<br />

impegnava a cedere a Magefredo, qualora non avesse rispettato l’accordo, <strong>il</strong> castello<br />

di Monterenzio. Uguale tenore hanno i patti fra <strong>il</strong> marchese e Bonifacio figlio<br />

d’Enrico. I beni di Adimaro spaziavano in un’area assai vasta, dal Santerno al Reno.<br />

Si tratta di una transazione, in ver<strong>it</strong>à un poco oscura, per le ripetute e sovrapposte<br />

clausole e scambi degli stessi beni. Forse vi si arrivò alla conclusione di lotte tra i<br />

tre contendenti (54). Per comprendere le circostanze è necessario chiarire l’ident<strong>it</strong>à di<br />

Adimaro: egli apparteneva alla famiglia degli Adimari, che pare derivassero da<br />

Bonifacio duca di Spoleto e Camerino e marchese di Toscana nella prima metà del<br />

IX secolo (55).<br />

Un conte Adimaro nel 988 confermò al monastero di San Salvatore di Settimo<br />

le donazioni fatte da suo padre, <strong>il</strong> marchese Bonifacio (56). Altro esponente della<br />

famiglia sarebbe stato Adimaro, anch’egli conte, che <strong>il</strong> Repetti dice essere nato da<br />

Ubaldo e dalla contessa Roza, che nel 1037 risiedeva in Valbona, nei pressi dello<br />

Stale (passo della Futa) (57). Secondo <strong>il</strong> Benati, tuttavia, l’Adimaro dell’ered<strong>it</strong>à canossana<br />

non sembra molto avere a che fare con la famiglia degli Adimari di Firenze: in<br />

primo luogo non sembra collegato ad esso <strong>il</strong> t<strong>it</strong>olo com<strong>it</strong>ale; la famiglia Adimari, poi<br />

non ebbe possessi r<strong>il</strong>evanti tra Santerno e Reno (58). Il nostro Adimaro apparterrebbe<br />

allora alla stirpe degli Ubaldini (59), che ebbero signoria nel Mugello e, pare, in alcuni<br />

dei luoghi c<strong>it</strong>ati nel documento del 1034, come emergerebbe da una carta del<br />

1145 con la quale i fratelli Albizone e Greccio figli di Ubaldino del Mugello si<br />

accordarono per la divisione dei beni paterni (60). Essi si spartiono beni nel Mugello,<br />

Pietramala e Cavrenno, che allora erano nel terr<strong>it</strong>orio bolognese, Monghidoro e altre<br />

v<strong>il</strong>le non meglio specificate del com<strong>it</strong>ato bolognese.<br />

Due carte del fondo della Canonica di San Giovanni di Firenze potrebbero gettare<br />

un po’ di luce su queste intricate parentele. Nel 1124 Giovanni arciprete e<br />

proposto della chiesa e dei canonici dei ss. Giovanni e Reparata cede a Ubaldino di<br />

Adimaro, che agisce anche a nome del fratello Bernardo tutti i beni che erano stati<br />

tenuti dall’arcidiacono Bernardo di Bernardo (61). In un secondo documento del 1108<br />

«Bonefatius et Albertus germani f<strong>il</strong>ii Eppi et Adimarus et Ildebrandus germani f<strong>il</strong>ii<br />

Ubaldi, et Sesmondus f<strong>il</strong>ius Bonefatii atque Bernardus f<strong>il</strong>ius Adimari et Adalascia<br />

congnus predicti Bonefatii et Gasdia congnus Adimari atque Gu<strong>il</strong>la congnus predicti<br />

Ildebrandi nec non Ghisla congnus iam dicti Sesmundi» refutano alle chiese di<br />

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