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de Creta, qui tunc erat conversus de Monteplano» sosteneva che <strong>il</strong> castagneto gli<br />

appartenesse (203).<br />

Essi convennero dunque «in curiam com<strong>it</strong>is Noteiova nec non sue coniugis<br />

Com<strong>it</strong>isse Cec<strong>il</strong>ie», che si trovava «in plebe de Aguziano» (Guzzano, oggi nel<br />

camugnanese). Fantino «per sacramentum paratus fu<strong>it</strong> defendere cum aliis testibus<br />

suam esse proprietatem»; e così Gerardo fu costretto «coram com<strong>it</strong>em et com<strong>it</strong>issam»<br />

a recedere da ogni pretesa «per se suosque fratres», sotto la pena di 60 soldi<br />

lucchesi.<br />

Sembra di poter intendere che al conte spettasse l’amministrazione della bassa<br />

giustizia nella zona, dir<strong>it</strong>to che sembra attestato anche, come vedremo, nel 1194 e<br />

nel 1233, e in virtù di tale potere intervenne nella disputa. Non necessariamente la<br />

giurisdizione doveva fare riferimento ad una concessione pervenuta dalla pubblica<br />

autor<strong>it</strong>à, anche se in tal senso sembrano indicare le formule contenute nei diplomi<br />

imperiali del 1155 e del 1164. L’amministrazione della bassa giustizia era comp<strong>it</strong>o<br />

degli ufficiali pubblici, ma dir<strong>it</strong>ti di natura pubblica erano sovente detenuti a t<strong>it</strong>olo<br />

signor<strong>il</strong>e da chi era in grado di eserc<strong>it</strong>arli effettivamente. Ricordiamo a tal propos<strong>it</strong>o<br />

le considerazioni che portammo quando si esaminò la concessione da parte dei<br />

«com<strong>it</strong>es et com<strong>it</strong>issas de Prato», tra cui <strong>il</strong> conte Tancredi Nontigiova, del dir<strong>it</strong>to di<br />

derivare acqua dal Bisenzio ad Ildebrando proposto della pieve pratese. La carta è<br />

del 1128; l’amb<strong>it</strong>o cronologico non è lontano da quello qui esaminato.<br />

Nell’ottobre del 1176 «Perus olim f<strong>il</strong>ius Tegrimi de vico Mangone et Belindonna<br />

iugalis et Beatrice f<strong>il</strong>ia eius» donarono al monastero di Montepiano tutti i beni<br />

immob<strong>il</strong>i che possedevano «in tota curia Mangone» e altrove «seu in tota Tuscia vel<br />

in Masa» (204). Con un’altra carta, sempre dell’ottobre 1176, Piero di Tegrimo e Tancredi<br />

del fu Teuzo da Mangona refutarono alla badia i beni immob<strong>il</strong>i posti «in tota<br />

curia Mangone vel in omnibus aliis locis», beni che furono di Ildebrando del fu<br />

Rodolfo «de vico Mangone» (205). Le cessioni di dir<strong>it</strong>ti e di beni continuarono nel<br />

1192, quando Piero promise all’abate Martino che non avrebbe alienato i suoi beni,<br />

salve restando le possib<strong>il</strong><strong>it</strong>à di vend<strong>it</strong>a e di mutuo, per le quali concesse al monastero<br />

<strong>il</strong> dir<strong>it</strong>to di prelazione. «Pos<strong>it</strong>e sunt predicte terre et case et vinee et s<strong>il</strong>ve a<br />

Mangone et eius curte et infra terr<strong>it</strong>urio plebi Sancti Gavini et plebe de Montecucculi<br />

et in curte de Vernio» (206). Inoltre Piero confermò al monastero la donazione di<br />

tutte le sue pertinenze a Mangona e nel terr<strong>it</strong>orio della pieve di San Gavino.<br />

Nei confronti di Piero di Tegrimo <strong>il</strong> monastero di Montepiano tentò di accampare<br />

dir<strong>it</strong>ti, sostenendo che egli si era fatto converso del cenobio, evidentemente per<br />

appropriarsi del patrimonio alla sua morte. Si accese così una controversia, che<br />

culminò nel 1194 in una seduta giudiziaria, presieduta dal conte Alberto (IV). Il lodo<br />

si tenne «in castro de Mangone, in palatio com<strong>it</strong>is», alla presenza di molti intervenuti,<br />

fra i quali <strong>il</strong> giudice Bardono e Federico di Creda della progenie degli<br />

Stagnesi.<br />

L’abate Martino sosteneva che «Perum dictum ipsius monasterii fore conversum<br />

et ipsum se et sua omnia bona ipsi monastero sponte dedicasse». Perciò<br />

Martino «cuncta sua bona ab eo petebat et dim<strong>it</strong>ti desiderabat». Oltre a ciò l’abate<br />

pretendeva «totum quod idem Perus nunc habet..., quod olim fu<strong>it</strong> Guidi Ranche et<br />

Ildibrandi, ubicumque est». Ma le istanze del monastero non furono accolte e Alberto<br />

sentenziò: «Ego nominatus comes ex certa scientia partium et meo arb<strong>it</strong>rio Perum<br />

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