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Post/teca<br />

Müller L'altalena del respiro (Milano, Feltrinelli, 2010, pagine 251, euro 18) dedicato alla tragica<br />

vicenda della minoranza romeno-tedesca deportata dai sovietici nei campi di lavoro forzato in<br />

Ucraina nel gennaio 1945, a guerra ancora in corso. Per ordine del generale Vinogradov, in nome<br />

di Stalin, tutti i tedeschi, uomini e donne di età compresa fra i diciassette e i quarantacinque anni,<br />

abitanti in Romania furono strappati dalle loro case e ai loro affetti per essere impiegati nella<br />

"ricostruzione" dell'Unione Sovietica distrutta dal conflitto. Era il prezzo che il Governo e il Paese<br />

dovevano pagare per aver affiancato la Germania nazista.<br />

Ma come tanti compatrioti, Leopold non sa cosa lo attende e parte pieno di speranze. Quella vita<br />

nel Banato romeno - regione al confine tra Serbia, Romania e Ungheria in cui è nata la stessa<br />

Müller - gli sembra squallida, senza prospettive. La sua ingenua incoscienza adolescenziale,<br />

speranzosa di sfuggire all'angustia della vita quotidiana di provincia accettando persino come<br />

destino migliore la deportazione in un lager, si scontra ben presto con una realtà terribile: la fame.<br />

È la fame a scandire i suoi cinque anni di cattività: "Non ci sono parole adatte a descrivere la<br />

sofferenza della fame. Ancora oggi io devo far vedere alla fame che le sono sfuggito. Mangio<br />

letteralmente la vita stessa, da quando non devo più soffrire la fame. Sono prigioniero del sapore<br />

del mangiare, quando mangio. Dal mio ritorno dal lager, da sessant'anni, mangio contro la fame".<br />

Quando viene prelevato da casa, il ragazzo decide di portare con sé solo una valigia ricavata dalla<br />

scatola di un grammofono. Dentro qualche indumento, pochi oggetti e tanta speranza. Ma già<br />

durante l'estenuante viaggio le aspettative cominciano a vacillare fino a sgretolarsi di colpo una<br />

volta giunto a destinazione. Attraverso il racconto di Leopold - che la scrittrice romena fa parlare in<br />

prima persona - anche il lettore viene catapultato nella terrificante realtà del lager. Dove a<br />

predominare è l'istinto di sopravvivenza. "E come potresti essere così lesto altrimenti - riferisce il<br />

protagonista - quando sei il primo a scoprire il morto. Bisogna spogliarlo in fretta mentre non si è<br />

ancora irrigidito e prima che un altro si prenda i vestiti. Bisogna tirare fuori dal cuscino il suo pane<br />

avanzato, prima che ci arrivi un altro. Sgomberare i morti è il nostro modo di portare il lutto". Del<br />

resto, aggiunge, "il lager è un mondo pragmatico. La vergogna e l'orrore non sono sentimenti che<br />

ci si possa permettere. Si agisce con costante indifferenza, forse con sfiduciata soddisfazione. Non<br />

c'è in questo nessuna gioia maligna".<br />

Ma se la fame - l'angelo della fame, come lo chiama Leopold - è una presenza costante,<br />

incombente, sono gli oggetti a definire i luoghi e le esistenze che si affacciano di volta in volta nel<br />

racconto. E sono sempre gli oggetti a mantenere il legame via via più flebile con la vita. Ecco allora<br />

il giovane deportato soffermarsi nella descrizione degli oggetti con i quali viene a contatto, come il<br />

fazzoletto ricamato portato da casa, il giaccone con l'inutile imbottitura, il letto perennemente<br />

infestato dalle pulci, la pala, il legno, il carbone, il cemento, che divengono centrali e prendono<br />

quasi vita, assorbendo nei prigionieri energie non solo fisiche ma persino mentali.<br />

Emblematica è la descrizione del cemento che "morde e ferisce le gengive", con le labbra che "ti si<br />

spaccano, come la carta dei sacchi". Non solo. "Si sgobba e si sente il proprio cuore che batte, e:<br />

bisogna risparmiare il cemento, bisogna stare attenti al cemento, il cemento non deve bagnarsi, il<br />

cemento non deve volare via. Ma il cemento si sparge, è autodilapidante e avaro con noi fino<br />

all'estremo. Noi viviamo come vuole il cemento. È un ladro che ci ha rubati, non siamo noi a rubare<br />

lui. E come se non bastasse, il cemento ci rende maligni. Spargendosi semina la diffidenza, il<br />

cemento è un intrigante".<br />

È la sicurezza degli oggetti, che sfocia spesso nell'ossessione del dettaglio e che sembra essere<br />

l'unica consentita. Perché in chi non possiede nulla, anche un attrezzo da lavoro diventa<br />

importante, dando protezione, restituendo persino identità e memoria, e rendendo la vita un po' più<br />

sopportabile. Fino al giorno della riacquistata libertà. Una libertà che però per Leopold, come per<br />

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