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Post/teca<br />

spaventosa verso la catastrofe. Era una vita spaventosa. Eppure non<br />

potevamo viverla in un altro modo».<br />

Sì, c’è sempre qualcosa di catastrofico nella felicità. Scott Fitzgerald<br />

(campione olimpico nella specialità «felicità perdute»), in uno scritto degli<br />

anni Trenta, nel ricordare con struggimento l’euforia da lui vissuta un<br />

decennio prima, scrive: «New York aveva tutta l’iridescenza del principio del<br />

mondo. (…) La nostra era una grande nazione e c’era ovunque aria di gala».<br />

Notate come lo spirito edenico con cui Fitzgerald parla di New York non è<br />

troppo diverso da quello con cui Balzac parla di Parigi. E notate anche come,<br />

nel sentirli parlare delle loro rispettive città elettive, il nostro cuore sia<br />

appesantito dal sospetto di essere al cospetto di qualcosa di irripetibile e di<br />

irrimediabilmente compromesso. Ruderi pieni di vita.<br />

Occorre notare, infine, che gli scrittori capaci di realizzare felicità così<br />

paradisiache sono di solito gli stessi in grado di fornirci gli scenari più<br />

mostruosi e apocalittici: Tolstoj, Balzac, Proust, Fitzgerald, Nabokov… E<br />

questo di certo non è un caso. Solo chi ha una così vivace familiarità con il<br />

Paradiso può essere così terrorizzato dall’Inferno.<br />

Ma allora perché, se tutto questo è vero, la letteratura ha rotto il suo sodalizio<br />

millenario con la felicità? Cosa è successo? George Steiner, parlando del<br />

cattivo carattere di Thomas Bernhard commenta: «Il guaio dell’odio è che ha<br />

il fiato corto. Là dove l’odio produce un’ispirazione autenticamente classica -<br />

in Dante, in Swift, in Rimbaud -, lo fa con delle folate su breve distanza.<br />

Quando si protrae, diventa una sega monotona e mal affilata che ronza e<br />

stride senza fine. L’ossessiva, indiscriminata misantropia di Bernhard, le<br />

filippiche contro l’Austria ventiquattr’ore su ventiquattro minacciano di<br />

vanificare i loro stessi scopi».<br />

Che non sia Steiner, al solito, a mettere il dito sulla piaga? Non si vive di solo<br />

odio. Lo sdegno perpetuo alla fine diventa un vezzo. Se la vita, nella migliore<br />

delle ipotesi, è un’alternanza tra euforia e disperazione, allora anche la<br />

letteratura deve esserlo. La letteratura deve dare conto delle intermittenze del<br />

cuore. Solo così riesce a essere grande. Per questo ho sempre trovato<br />

intollerabile, quasi illeggibile, 1984 di Orwell. Un libro tetro, privo di gioia.<br />

Persino Dostoevskij, persino Kafka sono capaci di fervide seppur<br />

momentanee felicità. Orwell ne è completamente incapace. L’ideologo uccide<br />

a ogni riga il romanziere.<br />

Insomma la ricetta è nella felicità. È grazie ad essa che - in un ipotetico<br />

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