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Post/teca<br />

altri deportati - e non solo per mano dei sovietici - non significa liberazione. Dal lager non si esce<br />

mai del tutto. "In mezzo alla gente sazia di casa - confessa il ragazzo ormai divenuto uomo - la<br />

libertà mi dava le vertigini".<br />

Con una scrittura asciutta, essenziale, capace di dar conto con toccante efficacia delle dinamiche<br />

interiori che si scatenano in un uomo costretto a una vita di stenti e di soprusi, Müller - nata nel<br />

villaggio di lingua tedesca di Nitzkyrdorf - racconta una pagina oscura e poco conosciuta della<br />

storia romena. "Il tema della deportazione - scrive nella postfazione - era tabù, perché ricordava il<br />

passato fascista della Romania. Solo in famiglia e con gli amici intimi, i quali erano stati anch'essi<br />

deportati, si parlava degli anni del lager. E anche allora soltanto per allusioni. Queste<br />

conversazioni furtive hanno accompagnato la mia infanzia. I contenuti non li capivo, ma percepivo<br />

la paura".<br />

Quella paura che evidentemente<br />

trapelava dalle parole della madre, che trascorse cinque anni in un campo di lavoro, e di altri<br />

conoscenti indelebilmente segnati dalla stessa sorte con i quali la donna parlava di quella terribile<br />

esperienza. Evidentemente l'eco di quelle discussioni non ha mai abbandonato la scrittrice, che nel<br />

2001 ha iniziato ad annotare conversazioni con ex deportati del suo villaggio. Tra questi anche il<br />

poeta Oskar Pastior, al quale raccontò il desiderio di scrivere su questo tema e con il quale prese a<br />

incontrarsi regolarmente. Tanto da indurla all'idea di scrivere il libro insieme. Tuttavia la morte di<br />

Pastior nel 2006 impedì di portare a termine il progetto, che pure aveva già prodotto quattro<br />

quaderni pieni di appunti ma che la Müller, profondamente colpita da quella perdita, mise da parte.<br />

"Solo un anno dopo - racconta il Nobel - riuscii a risolvermi e a congedarmi dal "noi", e a scrivere<br />

da sola un romanzo. Ma senza i dettagli sulla vita quotidiana del lager che mi aveva fornito Oskar<br />

Pastior non ci sarei riuscita".<br />

Il risultato è un libro intenso, crudo, brutale, come da attendersi da una scrittrice premiata<br />

dall'Accademia Reale Svedese per aver "saputo descrivere il panorama dei diseredati con la forza<br />

della poesia e la franchezza della prosa". Ne L'altalena del respiro la vita del lager viene<br />

presentata attraverso gli occhi e la memoria del protagonista, in un susseguirsi di fatti reali e di<br />

avvenimenti surreali, come capita di sperimentare quando il corpo è straziato da freddo e fame e la<br />

mente non riesce più a riequilibrare una coscienza sempre in bilico tra un illusorio simulacro di<br />

normalità e una follia vissuta come unica ancora di salvezza. E il lager sovietico non appare poi<br />

troppo dissimile da quello nazista. In entrambi il male, pianificato con scientifica determinazione e<br />

alimentato dalla banale normalità che lo rende ancor più mostruoso, si insinua negli uomini<br />

modificando inconsciamente la loro l'umanità fino ad annullarla. E impedendo di riconoscerla<br />

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