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Post/teca<br />

per noi – al rispetto internazionale dei diritti umani, a cominciare da quello d’asilo.<br />

I passati coloniali, beninteso, sono sempre molto scomodi da confessare e da<br />

rileggere. Da noi, per di più, il popolare mito degli “Italiani brava gente” è duro a<br />

morire, e non viene sostanzialmente scalfito, nella coscienza comune come nella<br />

gran parte dei manuali scolastici, dall’ormai preciso catalogo delle atrocità compiute<br />

dal 1911 al Governatorato di Graziani nelle sabbie della Sirte e della Tripolitania<br />

(oltre ai classici lavori di Angelo Del Boca, una buona introduzione al tema, con<br />

documentazione, fra l’altro, dei centomila morti e dell’yprite scagliata sulla<br />

Cirenaica, è il libro di Eric Salerno, Genocidio in Libia, manifestolibri 2005). Gli è<br />

che tale dibattito, più ancora che nella curvatura delle relazioni diplomatiche con la<br />

Jamahiriya, dovrebbe forse influire sulla nostra propria considerazione di uno<br />

spicchio del nostro passato, se non altro almeno per verificare se condividiamo<br />

ancora – a tacere delle antiche speculazioni razziali dell’oggi incensatissimo<br />

Giorgio Almirante – i non troppo obsoleti discorsi di Gianfranco Fini (2004) o di<br />

Alfredo Mantica (2001), secondo i quali il colonialismo italiano in Africa non si<br />

sarebbe macchiato di crimini rilevanti, e anzi avrebbe fornito alle popolazioni locali<br />

strade, lavoro e un modello di civiltà superiore. Vedremo mai in RAI (per ora è<br />

passato solo su Sky nel giugno del 2009) il ripetutamente censurato film Il leone<br />

del deserto (1980, con Anthony Quinn)?<br />

Ma nella mascherata romana di questi giorni si consuma anche qualcosa d’altro:<br />

l’aspetto forse più sconcertante della visita sta nell’inedita cerimonia di conversione<br />

delle hostess, che ha almeno due facce: da un lato fornisce ottimo materiale per la<br />

televisione libica di regime (un regime, è bene ricordarlo, che tutto l’Occidente<br />

ritiene dittatoriale), dall’altro induce forse qualche problema di autocoscienza nel<br />

Paese che si presta a ospitare e a finanziare un simile spettacolo. Non può non<br />

sfiorare l’idea che fra le varie analogie che uniscono Gheddafi a Berlusconi (alcune<br />

brillantemente enucleate oggi da un triste Francesco Merlo) vi sia anche un certo<br />

modo di considerare la donna e il suo ruolo nella società.<br />

Ad fontes: nel Libro verde, vademecum e fondamento ideologico della Jamahiriya,<br />

Gheddafi consacra un lungo capitolo alla donna. Dal suo periodare lutulento e<br />

ripetitivo, peraltro non dissimile dalla sua retorica verbale (almeno a sentire le<br />

anonime superstiti della performance di ieri), si enucleano alcuni concetti-cardine,<br />

come la distinzione di principio fra maschio e femmina, la predestinazione della<br />

donna al suo ruolo di madre, la condanna senz’appello della contraccezione e<br />

dell’aborto, la condanna non meno veemente degli asili (definiti come “squallidi<br />

allevamenti di pollame”) in favore dell’educazione casalinga nell’ambito familiare,<br />

infine la grande diffidenza nei confronti del lavoro femminile: «Poiché la natura le ha<br />

assegnato un ruolo diverso da quello dell’uomo, la donna dev’essere messa in<br />

condizione di adempiere al suo ruolo naturale». Come si vede, non è questione di<br />

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