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Post/teca<br />

veli e di lapidazioni: è questione di un preciso disegno politico.<br />

Qui siamo: è come se il principale mercificatore del corpo femminile nel mondo<br />

occidentale avesse trovato un inatteso punto di convergenza con il patriarca di<br />

certa Africa islamica: le donne vanno considerate essenzialmente per la loro<br />

funzione biologica o per il loro aspetto fisico (insomma: per l’hardware), e pazienza<br />

se le nostre civiltà si sono evolute in direzioni diverse così da spogliare le une e<br />

velare le altre; un compromesso, di volta in volta, si trova sempre, come si evince<br />

dalle direttive dell’agenzia “hostessweb.<br />

it“,<br />

che consigliava per le candidate uditrici<br />

un abbigliamento elegante ma “soft” – chi abbia visto le foto delle signorine<br />

convenute sulla Cassia, e abbia avuto la fortuna di girare per le vie di Bengasi, può<br />

fare un rapido confronto tra i nostri tailleurs e i peculiari prêt-à-porter in uso laggiù.<br />

Nel Paese di Videocracy, dove le soubrettes diventano ministre e la quota di donne<br />

impiegate (lo ricorda oggi l’OCSE) è tra le più basse dell’Occidente, anche questo<br />

show, che svende decenni di conquiste nella lotta per la parità fra i sessi, ha un suo<br />

senso, una sua cittadinanza. Ma sarebbe molto interessante se i maschi coinvolti<br />

affrontassero, senza facili ironie, altri temi scomodi del passato che non passa, per<br />

esempio la questione del ruolo e dello status delle donne indigene nelle campagne<br />

italiane in Africa. È infatti molto raro che qualcuno ricordi, accanto all’<br />

architettura di<br />

cui abbiamo insignito Asmara e Addis Abeba, altri omaggi di noi sapidi coloni, come<br />

l’istituto del “madamato”, o peggio le pratiche inflitte alle giovani “faccette nere”<br />

prima e dopo il formale divieto (conseguente alla proclamazione dell’impero nel<br />

1936) di commercio sessuale con le indigene per i soldati e coloni, preziosi<br />

depositari della purezza della razza.<br />

Molto si potrebbe imparare da una recente indagine di Nicoletta Poidimani<br />

(Difendere la razza,<br />

Sensibili alle foglie 2009), che si concentra soprattutto<br />

sull’Abissinia e l’Eritrea: nelle pagine di questo libro si possono discernere le<br />

abominevoli tappe del passaggio dal modello erotico-esotico dell’Africana da<br />

conquistare e civilizzare, all’annullamento nazionalistico della donna etiope che<br />

diventa prostituta o, appunto, “madama”, concubina in relazioni tanto più illecite<br />

quanto meno fondate sulla violenza e lo sfruttamento (il sospetto di affectio<br />

maritalis era un’aggravante pesantissima per l’incauto italiota colto in fallo). A ben<br />

vedere, osserva la Poidimani, l’atteggiamento razzista che esaltava le “madri<br />

romane e fasciste” in nome del rifiuto del meticciato non è rimasto senza un<br />

séguito: a dispetto delle grottesche profferte del leader libico (“Venite a Tripoli a<br />

sposare i nostri uomini”), molta della retorica sulla “sicurezza”, e una parte del<br />

memorando “decreto antistupri” del 2009, tradiscono la più o meno diretta<br />

identificazione fra straniero e stupratore.<br />

Sul corpo delle donne africane l’Italia ha scritto alcune pagine incresciose della sua<br />

storia; ora, sul corpo delle donne italiane un dittatore africano viene a dettare le sue<br />

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