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Post/teca<br />

Certo, non ha quasi senso paragonare Lévin a Rastignac. A ben vedere i due<br />

non si somigliano in niente. Il secondo se la sogna la magnanimità del primo,<br />

per non dire del suo conto in banca. Si potrebbe persino ipotizzare una<br />

relazione tra gli alti sentimenti di Lévin e la sua solidità patrimoniale,<br />

relazione non meno profonda di quella che intercorre tra la meschinità di<br />

Rastignac e la sua indigenza. Eppure ciò che li accomuna è l’aspirazione alla<br />

felicità. E il fatto che i loro sommi creatori non provino alcun ritegno nel<br />

raccontarla. A costo di essere pacchiani. A costo di esporsi al ridicolo.<br />

E tuttavia mi piace notare come le felicità così splendidamente pregustate da<br />

Lévin e Rastignac stiano per essere negate ad entrambi da un concatenarsi di<br />

circostanze sfavorevoli. Sia Lévin che Rastignac dovranno aspettare un sacco<br />

di tempo per tornare a godere quel tipo di felicità. E quando essa tornerà non<br />

avrà più un sapore immacolato e primigenio. D’ora in poi per i nostri eroi solo<br />

felicità di seconda mano.<br />

Il dato beffardo della felicità è che essa non è mai in diretta ma, in un certo<br />

senso, sempre in differita. Ed ecco perché di fronte a certe grandi felicità<br />

romanzesche assistiamo alla realizzazione di una specie di discrasia<br />

temporale. L’ineffabilità della felicità è sancita dal rapporto che si stabilisce<br />

tra l’eroe del romanzo e il lettore. L’eroe del romanzo - Lévin o Rastignac - è lì<br />

tutto preso dalla voluttà che sta per assaggiare. E dall’altra parte della<br />

barricata c’è il lettore che sa che si tratta di una voluttà trascorsa: qualcosa<br />

che, sebbene sulla carta debba ancora avvenire, altrove e in altro tempo è già<br />

avvenuta. Questo produce nel lettore una specie di nostalgia: una nostalgia<br />

per ciò che deve ancora capitare e che, in uno strano paradosso, è già capitato.<br />

La nostalgia che conosce chiunque sia stato felice almeno una volta nella vita.<br />

Non è proprio questo il dato assurdo della felicità? La sua incapacità di essere<br />

contemporanea - esiliata com’è nel passato e nell’avvenire -, che produce,<br />

persino in chi la assapora, la preventiva delusione per qualcosa che si va<br />

sbriciolando?<br />

Ed ecco perché la letteratura, molto più della vita, è il luogo deputato alla<br />

felicità. Se la felicità per sua stessa natura è anacronistica allora nessuno<br />

meglio del lettore (un essere condannato a vivere nel passato o proteso nel<br />

futuro) è più adatto a goderne i frutti troppo acerbi o già avvizziti. Tanto più<br />

perché la felicità, in presa diretta, è insostenibile, invivibile.<br />

In un racconto di Mishima dedicato al sodalizio omoerotico tra Cocteau e<br />

Radiguet troviamo scritto: «Era una vita che precipitava a una velocità<br />

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